Ho letto Lo stereoscopio dei solitari, di Juan Rodolfo Wilcock (1919-1978). Narratore anomalo nel panorama italiano, Wilcock, argentino, vissuto in Italia dal 1957 fino alla morte, sembra aver ereditato il lato immaginifico e fantastico del suo scrivere dagli autori sud americani, come denunciano chiaramente alcuni dei racconti che compongono il libro, in cui si riconosce, ad esempio, lo stile e l'ispirazione di Borges, al quale l'autore era legato da un rapporto di profonda amicizia. Come, del resto, una grande amicizia lo legava anche ad Adolfo Bioy Casares ed alla moglie di lui Silvina Ocampo, con i quali viaggiò per la prima volta in Europa ed in Italia.
La raccolta, scritta in italiano e pubblicata per la prima volta da Adelphi nel 1972, fu concepita da Wilcock come "un romanzo, con settanta personaggi principali che non si incontrano mai", ma quali sono questi personaggi? E qual'è il filo conduttore di questo romanzo composto da episodi tanto diversi tra loro?
Quello di Wilcock è in realtà un affresco del mondo reale, alle volte trasfuso nella dimensione fantastica che, come nei grandi quadri di Bruegel e forse, ancor meglio, in quelli di Hieronymus Bosch, coglie gli aspetti più intimi e veritieri dell'esistenza dei singoli, componendo però un insieme che risulta coerente e che raffigura la nostra società, con le sue miserie, i suoi problemi, la sua rassegnazione. No, non è un quadro positivo questo che ci restituisce con così rara efficacia Wilcock, perché va a sondare gli abissi della povertà, della solitudine e della disperazione, il tutto in piccoli flash, di rara efficacia che, troncati bruscamente, alle volte ci lasciano attoniti. Uno degli episodi migliori, a mio avviso, è La roulette, in cui, al tavolo da gioco, si accalcano i contadini che si giocano gli ultimi ceci sottratti con fatica alla terra, mangiati dai colombi che, ovviamente indifferenti alla loro sofferenza ed alla loro speranza di redenzione, li mangiano, anche se sono stati buttati sui numeri vincenti, sottraendo così ogni possibilità di guadagno e, evidentemente, ogni possibilità di sperare.
Si diceva dei personaggi, quelli identificabili con immediatezza appartengono sia al mondo reale che a quello fantastico, come il fauno, protagonista di un altro episodio esemplare, che mal si adatta alla sua figura mezza umana e mezza animale e, con il suo tentativo di coprirsi nella stagione fredda, ci mette di fronte ad una sofferenza che è quella di un'umanità dolente e povera, non solo priva, come il fauno, dei mezzi necessari alla propria sopravvivenza, ma anche non riconosciuta, lontana dai pensieri di quel resto del mondo che vive con maggior facilità la propria esistenza.
Come lontano e, alla fine della storia, del tutto cancellato, è l'uomo che ha scelto di fare l'eremita su una colonna al centro della piazza di un paese del quale non viene fatto il nome per il semplice fatto che potrebbe essere la piazza di qualsiasi centro abitato, grande o piccolo, di qualsiasi paese. Dopo aver attirato l'attenzione per un breve periodo inziale, la gente si abitua alla sua presenza, che inizia, anzi, ad infastidire più di qualcuno, iniziano le maldicenze e le proteste e, quando un mattino l'uomo scompare, gli abitanti del paese si limitano a constatare che "Sarà volato via".
Da questo puzzle, scritto con stile nitido e originalissimo, emerge quindi un abisso di indifferenza, di incomunicabilità e non di rado di cattiveria, come comprende bene l'aruspice, un impiegato del Ministero del Bilancio che, fin da bambino, si diletta a predire il futuro squartando piccoli animali ed esaminandone le viscere. "Da un leprotto apprese che sua sorella non era più vergine; da un rospo con due stomaci il nome del nuovo Presidente; un gallo cedrone gli rivelò che era stato il suo miglior amico a prendersi i soldi lasciati sopra il tavolo. Il mondo infatti non incoraggia la conoscenza. Pochi anni ci vogliono per trasformare l'idealismo della prima giovinezza in rassegnata routine".