Translate

lunedì 26 giugno 2017

Shakespeare. Riccardo II e il tema dell'esilio



Riccardo II


Riccardo II è una tragedia di Shakespeare relativamente poco rappresentata nei teatri malgrado rivesta un notevole interesse. La trama complessa infatti costituisce il passaggio dell'autore da un'ottica tipicamente medievale, in cui l'unico potere legittimo è quello che proviene dal rispetto delle linea successoria, ottenuta e garantita per grazia divina, a quella moderna, in cui invece viene preso in considerazione anche il consenso popolare.
Questo passaggio è molto importante poiché cambia la prospettiva dell'opera shakespeariana segnando un'evoluzione verso un nuovo aspetto del potere che inizia ad essere concepito come necessariamente condiviso, cioè approvato dai cittadini, anche se siamo ancora lontani da una piena assunzione di questo modello, suggerito già due secoli prima dal filosofo Guglielmo di Ockham.
Riccardo II quindi, re per grazia divina, ma inadatto a ricoprire il suo ruolo, è qui contrapposto ad Enrico di Bolingbroke, pari del regno, al quale dovrà cedere il potere. Dopo un periodo di esilio Bolingbroke, l'uomo nuovo, con l'appoggio del popolo, salirà al trono con il nome di Enrico IV, mentre Riccardo II, simbolo di un'intera epoca che andava concludendosi, finirà i suoi giorni prigioniero ed abbandonato da tutti, prima nella torre di Londra e poi nel castello di Pomfret.
I personaggi della tragedia che fanno da corona a quelli principali sono portatori di un forte simbolismo, alludente anch'esso a questo cambio di prospettiva.
Ma ciò che è interessante notare, al di là di questo, è il modo in cui vengono sviluppati qui i temi della lontananza e dell'esilio per i quali viene proposto un ribaltamento del pensiero comune che prepara, di fatto, il ritorno di Bolingbroke, sottolineandone la dignità con cui affronta il temporaneo sacrificio, e legittimando nel contempo la sua successiva presa di potere.
Mirabili i versi con cui Gaunt si rivolge a Bolingbroke, condannato dal re ad un lungo esilio (dieci anni poi ridotti a sei), mentre questi sta lasciando l'Inghilterra: “Tutti i luoghi su cui si posa l'occhio del cielo / sono per l'uomo saggio porti e approdi felici./ Lo stato di necessità t'insegni a ragionare così: / che tanto vale far di necessità virtù. / Non pensare che è stato il Re a bandirti: / tu hai bandito il Re. Il dolore è tanto più pesante / quando si sente tollerato a fatica. / Va', di' che son io a mandarti in giro in cerca d'onori, / non che il re ti ha esiliato; o immagina / che un'insaziata pestilenza ammorbi l'aria di casa, / e che tu prendi il volo verso climi più sani. / Pensa alle cose che ti son più care e fa' conto / di ritrovarle sul tuo cammino, non di averle alle spalle. / Fa' finta che gli uccelli canori siano dei musici, / che l'erba che calpesti sia il tappeto della sala del trono, / che i fiori sian belle dame, e i tuoi passi null'altro / che un'incantevole figura di danza, ad un ballo: / poiché il dolore ringhioso è meno incline a azzannare / l'uomo che se la ride e non si fa spaventare”.




Una bella lezione di saggezza, basata sul ribaltamento delle parti, destinato poi a ripetersi al ritorno di Bolingbroke, quando troverà l'appoggio del popolo e riuscirà a salire al trono. “Non pensare che è stato il re a bandirti: tu hai bandito il re”, dice Gaunt, suggerendo un pensiero positivo che non solo aiuta a lenire il dolore dell'allontanamento ma ha il compito di formare un uomo diverso, più forte e capace di reagire alla sorte contraria, con la certezza che si tratta di una condizione temporanea. Nello scambio di battute che precede questo discorso Gaunt sottolinea proprio questo elemento e dice al figlio, che vede l'esilio come un tempo infinito da passare fuori dalla sua terra: “Ma starai via così poco tempo!” e ancora “Cosa sono sei inverni? Sono presto passati”, e “Fai conto che sia un viaggio di piacere”.
Con questi versi Shakespeare rivoluziona lo schema della tragedia e fa del perdente il vincitore, poiché Bolingbroke vince già qui, nel momento in cui affronta l'esilio, nelle parole del padre, nella solidarietà dei suoi amici, che lo accompagnano alla riva del mare dove si imbarcherà per la Francia, qui, dove ha l'occasione di dimostrare la grandezza del saper accettare la sconfitta e di saper rovesciare la sorte.

Riccardo II, Atto II, scena III


J. Coghlan. Riccardo II prigioniero nel castello di Pomfret

⇒Il libro: W. Shakespeare, Riccardo II, Garzanti 1995 (con testo a fronte), anche in ebook su Amazon




martedì 20 giugno 2017

Chiostro della Collegiata di Sant'Orso (Aosta)



Chiostro della Collegiata di Sant'Orso
Chiostro della Collegiata di Sant'Orso. Natività (foto Daniela Durissini)

Il chiostro della collegiata di Sant'Orso, ad Aosta, è stato realizzato nel secolo XII, in seguito alla fondazione di una comunità di agostiniani da parte della congregazione di Sant'Orso ed alla conseguente necessità di creare degli spazi adatti alla vita dei monaci. Contemporaneamente al chiostro, infatti, vennero eretti anche gli altri locali conventuali. Il vescovo di Aosta, Eriberto, agostiniano, aveva presentato la richiesta di fondazione della comunità al papa Innocenzo II, e aveva poi nominato Arnolfo di Avise priore della stessa.
Secondo una prima datazione i lavori del chiostro sarebbero iniziati nel 1132 o in anni vicini a questa data, mentre secondo altri studiosi tali lavori risalirebbero alla seconda metà del secolo, quando lo stesso Arnolfo era divenuto vescovo della città.
Purtroppo il chiostro è stato più volte rimaneggiato e, soprattutto dopo la soppressione del convento agostiniano, avvenuta nel 1644, la parte del convento che vi si affacciava fu demolita.


Chiostro della Collegiata di Sant'Orso
Chiostro della Collegiata di Sant'Orso. Dromedari (foto Daniela Durissini)

Dei 52 preziosi capitelli ne rimangono oggi solo 32, ma questi testimoniano di una raffinata arte scultorea, ascrivibile, secondo gli studi più recenti, alla scuola provenzale.
Originariamente i capitelli furono realizzati in marmo bianco, ma in seguito vennero ricoperti da una sostanza scura, che rende l'insieme piuttosto cupo.
Raffigurano scende tratte dall'Antico testamento, dai Vangeli, dalla vita di Sant'Orso, ma anche scene tratte dalle favole di Esopo.


Chiostro della Collegiata di Sant'Orso
Chiostro della Collegiata di Sant'Orso. Capitello con  animali (foto Daniela Durissini)

⇒(click) Per saperne di più


lunedì 19 giugno 2017

I protagonisti. Agostina Segatori musa di van Gogh

Vincent van Gogh. Agostina au Tambourin (1887)
..
In un noto ritratto dipinto da van Gogh nel 1887 è raffigurata una donna, seduta al tavolino di un caffè, davanti ad un boccale di birra, con aria stanca ed annoiata, lo sguardo perso nel vuoto ed una sigaretta in mano. Indossa un copricapo vistoso, arricchito con piume. Accanto a lei un ombrellino, posato su un seggiolino a forma di tamburello; sullo sfondo fumoso si notano alcune delle stampe giapponesi di cui van Gogh faceva collezione. La donna è Agostina Segatori, proprietaria del locale, il Café du Tombourin, ed amante del pittore.
Nata ad Ancona nel 1841, Agostina era arrivata a Parigi molto giovane, forse assieme al pittore Corot, di ritorno da un viaggio in Italia, ed aveva iniziato a posare per numerosi artisti, tra i quali appunto Corot, che la ritrasse in uno splendido quadro intitolato Agostina. L'italienne, del 1866, in cui indossa un abito tradizionale. Genere non insolito, ma meno noto, quello del ritratto, per un artista conosciuto per lo più come paesaggista, la rappresentazione della Segatori è qui pensata sullo sfondo di un paesaggio collinare quasi interamente nascosto però, dalla figura della donna.


Jean-Baptiste Camille Corot. Agostina. L'italienne (1866)

Agostina venne ritratta anche da Manet, Delacroix, Gérome, e numerose volte da É. Dantan, con il quale ebbe una lunga relazione sentimentale dalla quale nacque un figlio, Jean-Pierre, non riconosciuto dal padre.


Édourad Manet. L'italienne (1878)

Il Café du Tambourin, il cui nome deriva da alcuni arredi, ideati dagli artisti, amici della proprietaria, fatti a forma di tamburello, da lei aperto nel 1885, era frequentato da numerosi artisti ed intellettuali. L'artista Jules Chéret ideò un manifesto per l'inaugurazione. 



Jules Chéret. Manifesto per il Café au Tambourin

Toulouse Lautrec vi dipinse van Gogh. E proprio in questo locale la Segatori, divenuta nel frattempo l'amante di van Gogh, organizzò la prima mostra di quadri del pittore che, per mancanza di soldi, le pagava le pietanze che ordinava consegnandole alcune delle sue opere.
Quando la relazione finì questi quadri furono trattenuti dalla Segatori, come si evince da una lettera del 1887, scambiata da Vincent con il fratello Theo, nella quale il pittore si lamenta di non essere riuscito a recuperarli, mentre il caffè stava ormai per passare di mano.
Ma van Gogh, oltre al ritratto al tavolino, aveva dipinto altre volte Agostina, forse anche in qualcuno dei nudi di quel periodo. Uno dei ritratti più significativi è datato 1887, lo stesso anno del primo, e la donna appare in abito tradizionale, su sfondo giallo. I colori hanno preso il sopravvento e, accostando i due dipinti, si nota una differenza molto significativa nella tecnica adoperata, corrispondente ad un'evoluzione nel percorso artistico del pittore.


Vincent van Gogh. L'italienne (1887)

Agostina morì a Parigi nel 1910, lontana dal mondo artistico in cui era vissuta e dimenticata.


venerdì 16 giugno 2017

Chiesa romanica di Sv. Kerševan (Krk)




Sv. Kerševan. Krk


Nei pressi del villaggio di Milohnići, sull'isola di Krk (Croazia), si trova l'antica chiesetta dedicata a San Crisogono (Sv. Kerševan). Vi si giunge lungo un ameno sentiero tra campi e boschi cedui. Un tempo la zona, ora ricoperta da una vegetazione rigogliosa, era coltivata e la chiesa si trovava in mezzo alle campagne.



Sv. Kerševan. Krk


Il piccolo edificio, costruito interamente in pietra a secco e risalente con ogni probabilità agli inizi del XII secolo, presenta una pianta trilobata. La copertura, in lastre di pietra, è costituita da tre cupolette laterali e da una cupola centrale, di maggiori dimensioni, mentre il piccolo vestibolo presenta una copertura a due falde. L'interno prende luce da alcune finestrelle a forma di croce. Sopra l'architrave della porta d'ingresso è scolpita una semplice croce. Con un recente restauro si è provveduto al consolidamento dell'edificio, che è sempre aperto.



Sv. Kerševan. Krk


La chiesa è una delle più antiche conservate in Croazia ed è stata dedicata a San Crisogono, martire aquileiese, morto nel 303, sotto Diocleziano, e venerato sia dalla chiesa cattolica che da quella ortodossa. La leggenda vuole che il corpo di Crisogono, ucciso ad Aquileia per espressa volontà dell'imperatore, fosse stato gettato in mare e ritrovato poi da un sacerdote, che lo seppellì. In seguito i resti del martire furono portati a Zara, dove venne definitivamente sepolto nella chiesa a lui dedicata.



Michele Giambono. San Crisogono a cavallo  (San Trovaso-Venezia)



giovedì 15 giugno 2017

Gabriela Mistral. Páginas (perdidas) de la vida mía.

⇓(english version available)



Gabriela Mistral


In questo bel libro, curato da Jaime Quezada, sono raccolti molti scritti di Gabriela Mistral, pagine sparse, che coprono un lungo arco di tempo, dalla giovinezza fino agli ultimi, difficili, anni di vita della grande poetessa cilena.
Gabriela Mistral, premio Nobel per la letteratura nel 1945, si rivela in queste pagine, alle volte dirette ad amici, ma non solo, con sorprendente schiettezza, narrando delle sue modestissime origini e della sua vita di contadina (“discendo da contadini e sono una di loro” afferma con fierezza) e di insegnante. Per tutta la vita Gabriela si sente legata alla terra, che ricorre con frequenza nei suoi scritti, ed a quei contadini che la fanno fruttare e la mantengono, con una fatica che lei conosce bene, privati tuttavia di un adeguato riconoscimento del loro lavoro e dell'opportunità di accedere all'educazione e quindi alla possibilità di migliorare la propria vita. E questo è un argomento particolarmente caro all'autrice, che ha insegnato nelle piccole scuole rurali cilene e che, avendo sperimentato personalmente la difficoltà di accesso alla costosissima scuola superiore, si è sempre battuta per la gratuità dell'educazione pubblica e per offrire ai più poveri un'opportunità di apprendimento.
Essendo stata nominata console del Cile fin dal 1932, Gabriela Mistral rimane fuori dal suo paese per molti anni, facendovi ritorno solo occasionalmente, ed in queste pagine affiora spesso la nostalgia per i paesaggi montagnosi della Cordigliera andina, come per quelli del sud del Cile, dove ha insegnato per qualche anno. Pur detestando il clima troppo rigido di Punta Arenas, non manca di ricordare la splendida terra patagonica, con i suoi estremi climatici e fisici e con la sua straordinaria bellezza.
Memorabili alcune pagine dedicate al ricordo di una navigazione tra i fiordi meridionali, ascoltando i racconti dei marinai che evocano avventure fantastiche vissute nei mari australi.
Di grande impatto anche la descrizione delle notti sulle montagne del suo paese, limpide e stellate come non si vedono altrove, delle nevicate (di particolare effetto la descrizione di un giorno di “nevada grande” nei pressi dell'Aconcagua), della natura selvaggia ed autentica del Cile lontano e, paradossalmente, irraggiungibile, a causa del suo impiego all'estero.



Gabriela Mistral


L'incarico di console la porta in Italia, Francia, Spagna, Stati Uniti, Brasile, Messico, spesso pagata troppo poco per poter vivere dignitosamente, malgrado le conferenze e le lezioni che viene chiamata sempre più spesso a tenere, man mano che la sua fama si diffonde. Di questi paesi tuttavia scrive assai poco, mentre in alcune pagine affiora la delusione per come viene considerata in patria, soprattutto per le sue prese di posizione politiche, e per le critiche che le vengono rivolte, alle quali non è forse estranea neppure la nota “guerrilla letteraria” che in quegli anni vede protagonisti i tre più grandi poeti cileni, Pablo Neruda, Pablo de Rokha e Vicente Huidobro (lei spende parole di elogio per quest'ultimo), in un confronto fatto di gelosie e di invidie, più che di poesia, al quale, il premio Nobel conferito alla Mistral, tenutasi però sempre accuratamente fuori dalle “ostilità”, certo dava qualche opportunità di riaccendersi.
Gli ultimi scritti sono pervasi dal pessimismo dovuto al peggiorare della malattia ed alla consapevolezza che la fine ormai vicina l'avrebbe trovata, con ogni probabilità, lontana dal suo paese.
Nell'insieme non si tratta di un libro di facile lettura per la complessità dei temi e per la particolarità della scrittura che, sovente, è quasi poesia, ma è un libro splendido che, più di ogni biografia, ci fa conoscere la personalità di questa donna straordinariamente attuale.
Gabriela Mistral è morta a New York il 10 gennaio del 1957.

Il Libro: Gabriela Mistral, Páginas (perdidas) de la vida mía, a cura di Jaime Quezada, Editorial Mago, 2015 (edizione digitale acquistabile anche su Amazon)


⇒ (click) Biografia di Gabriela Mistral







English version





In this beautiful book, edited by Jaime Quezada, many writings by Gabriela Mistral are collected, scattered pages that cover a long period of time, from youth to the last, difficult years of the great Chilean poetess.
Gabriela Mistral, the Nobel Prize for Literature in 1945, is revealed in these pages, sometimes directed to friends, but not only, with astonishingly frankness, telling of her modest origins and her peasant life ("l descend from peasants and I am a of them" affirms proudly) and as a teacher. For the rest of her life, Gabriela feels bound to the earth, which frequently recurs in her writings, and to those peasants who make her grow and keep it, with the fatigue that she knows well, but they are deprived of proper recognition of their work and of the opportunity to access to education and hence to the opportunity to improve their lives. And this is a topic particularly dear to the authoress, who taught in the small rural Chile schools and who, having personally experienced the difficulty of accessing the very expensive high school, has always struggled for the gratuity of public education and to offer the most poor learning opportunity.
Having been named Chile's consul since 1932, Gabriela Mistral has been out of the country for many years, returning only occasionally and in these pages there is often the nostalgia for the mountainous landscapes of the Andean Cordillera, as for the southern Chile, where she taught for a few years. Although she hated the over-rigid climate of Punta Arenas, she mention of the beautiful patagonian land, with its climatic and physical extremes and its extraordinary beauty.
Memorable are the pages dedicated to the memory of sailing through the southern fjords, listening to the stories of sailors evoking fantastic adventures in the southern seas.
Of great impact is also the description of the nights on the mountains of her country, clear and starry as can not be seen elsewhere, of the snowfalls (particularly the description of a day of "nevada grande" near Acconagua), of the wild nature of the far-away Chile, paradoxically unattainable, due to her employ abroad.
As a consul she arrive in Italy, France, Spain, the United States, Brazil, Mexico, often paid too little to be able to live dignitously, despite the lectures and lessons that she is increasingly called upon to hold, as her fame spreads. Of these countries, however, writes very little, while in some pages emerges the disappointment of how she is considered at home, especially because of her political views and the criticisms that are addressed to her, to which perhaps is not extraneous the note " Guerrilla letteraria" which in those years see protagonists the three greatest Chilean poets, Pablo Neruda, Pablo de Rokha and Vicente Huidobro (she spends words of praise for the latter), in a comparison of jealousy and envy, more than poetry, to which, the Nobel Prize awarded to the Mistral, though always carefully kept out of "hostility", certainly gave some opportunity to re-energize.
The last writings are pervaded by the pessimism due to the worsening of the illness and the awareness that the near end would probably find her, far from her country.
Overall, this is not an easy-to-read book for the complexity of the themes and for the peculiarities of writing that is often almost poetry, but it is a splendid book that, more than any biography, tells us about this woman's personality Extraordinarily current.
Gabriela Mistral dies in New York on January 10, 1957.

The Book: Gabriela Mistral, Páginas (perdidas) de la vida mía, edited by Jaime Quezada, Editorial Mago, 2015 (digital edition also available on Amazon)


⇒ (click) Gabriela Mistral biography


lunedì 12 giugno 2017

Sofonisba Anguissola



Sofonisba Anguissola. Autoritratto (1554)


Sofonisba nacque probabilmente nel 1531 o nel 1532 a Cremona. Era la primogenita di una famiglia nobile e piuttosto numerosa. Il padre, Amilcare, e la madre, Bianca Ponzoni, ebbero altri sei figli, tutti avviati alla carriera artistica o letteraria, grazie alla lungimiranza ed all'apertura di vedute del padre che concesse alle sei figlie un'educazione pari a quella del solo figlio maschio. Studiò pittura presso lo studio di Bernardino Campi e poi presso Bernardino Gatti, il Sojaro, dai quali derivò alcuni aspetti del suo stile che risentì sempre del manierismo cremonese, anche se poi riuscì ad uscire dagli schemi rigidi iniziali, influenzata soprattutto dal bresciano Moroni.
Il padre, convinto sostenitore dell'attività della figlia e del suo talento, mandò a Michelangelo Buonarroti, tra il 1557 ed il 1558, alcuni dei primi disegni di Sofonisba e questi li apprezzò al punto da introdurla nei migliori ambienti artistici dell'epoca. Il Vasari, che per suo tramite fu ospite degli Anguissola a Cremona, la citò ammirato nelle sue Vite. Ma ebbe parole di elogio anche dal Salviati e da Annibal Caro.
Nel 1559 divenne dama di compagnia della regina Elisabetta, moglie di Filippo II di Spagna, con la quale rimase fino alla morte di questa, avvenuta nel 1568, lavorando anche come ritrattista di corte.



Sofonisba Anguissola. Infante Isabella Clara Eugenia e Catalina Micaela (1570)


Ed il ritratto fu il genere preferito da questa pittrice che seppe rinnovarsi introducendovi elementi utili a fissare sulla tela non solo un volto molto fedele al vero, ma anche la personalità e le inclinazioni del personaggio raffigurato, esattamente come fece con sé stessa nell'autoritratto che la vede con in mano un libriccino, o con la madre, nel cui ritratto spiccano lo splendido abito, la bella ed importante collana e lo zibellino-gioiello, tipico accessorio cinquecentesco delle nobili dame.


Sofonisba Anguissola. Ritratto della madre (1557)

Di notevole interesse anche il paesaggio che fa da sfondo al ritratto di famiglia, che nella parte più lontana, dipinta nei toni del blu, risente di qualche influsso della pittura nordica, mentre la prospettiva rende più intimo il gruppo famigliare, anche grazie ai colori più caldi ed alla posizione delle figure, vicine, accostate a due tronchi d'albero da cui pende un drappo, quasi a ricreare un interno.


Sofonisba Anguissola. Ritratto di famiglia (1557)

Non più giovane sposò, nel 1573, il nobile siciliano Fabrizio Moncada, fratello del viceré, e si trasferì con il marito a Paternò, nel palazzo della famiglia di lui. Rimase vedova solo cinque anni dopo, quando il marito morì in mare, a seguito di un assalto dei pirati. Un anno dopo, nel 1579, si risposò a Pisa, con Orazio Lomellini, nobile genovese, conosciuto durante un viaggio di ritorno da Palermo verso la Liguria, interrotto per il maltempo a Livorno. Il nuovo marito aveva quindici anni meno di lei e Sofonisba lo sposò contro il volere del fratello e della corte spagnola ma il loro rapporto durò per tutta la vita. I due vissero a lungo a Genova e la loro casa fu frequentata da molti intellettuali ed artisti. In tarda età Sofonisba tornò a Palermo, dove il marito aveva degli interessi, ed abitò nel quartiere Seralcadio, continuando a dipingere. Morì nel 1625, ultranovantenne e venne sepolta nella chiesa di San Giorgio dei Genovesi, dove il Lomellini pose una lapide in occasione del centenario della nascita della moglie.
Sofonisba aveva smesso di dipingere da qualche anno a causa di una grave malattia agli occhi ma nel frattempo aveva raggiunto una notevole fama tanto che Antoon van Dyck, di passaggio a Palermo, per ritrarre il viceré Emanuele Filiberto di Savoia, aveva voluto incontrarla, nel 1624, riportandone un'impressione molto lusinghiera ed affermando che aveva appreso molto di più da una donna ormai cieca che dagli studi effettuati sui grandi maestri.

⇒(click) Per saperne di più



Sofonisba Anguissola. Le sorelle giocano a scacchi (1555)



giovedì 8 giugno 2017

Cima da Conegliano



Cima da Conegliano. Satiri (1505-10)

Giovanni Battista (Cima) nasce a Conegliano probabilmente tra il 1459 ed il 1460, dato che nel 1473 compare come Johannes, cimatore, nell'estimo cittadino e quindi significa che all'epoca aveva raggiunto la maggiore età, cioè i quattordici anni. Data la scarsità della documentazione archivistica però, non si può dire con certezza quanti anni avesse quando vi fu registrato. La sua prima opera certa è un gonfalone della Scuola dei Calegheri di Conegliano, del 1486.
Nel 1489 firma una pala per la chiesa di San Bartolomeo a Vicenza ed è probabile che nello stesso anno si sia trasferito a Venezia, nella contrada di San Luca, aprendo una bottega propria. Nella città lavora moltissimo, dedicandosi in particolare alle pale d'altare, con uno stile nuovo e sorprendente, destinato a caratterizzare l'ultimo scorcio del XV secolo della pittura veneziana, che esalta il paesaggio, cui dà una connotazione marcatamente poetica, fino ad allora sconosciuta. 



Cima da Conegliano. Sant'Elena (1495)

I suoi ispiratori sono Giovanni Bellini e Alvise Vivarini, che a sua volta elabora la lezione di Antonello da Messina, che sembra trasparire anche nell'opera di Cima.
I paesaggi di questo pittore, esaltati anche dalla prosa di Andrea Zanzotto, poeta che ritrova in essi la propria esperienza sul territorio, raffigurano gli ambienti veneti, nella serenità delle valli e dei monti lontani, nella prepotenza del verde che viene esaltato e distribuito ovunque, negli alberi, nelle acque che corrono; e la natura allora non è più solo sfondo ma diventa quasi protagonista di alcune delle sue opere più belle.



Cima da Conegliano. Presentazione della Vergine (1500 c.)

Da notare anche i viaggi di Cima nel retroterra veneto ed in Emilia, dove gli vengono commissionate le decorazioni di diversi altari e, se la documentazione non riesce a restituirci una figura completa dell'artista, la sua abbondante produzione rappresenta bene il suo percorso pittorico, pur essendo riconoscibile, in diverse opere, come ad esempio nei polittici di alcune chiese, l' apporto della bottega.



Cima da Conegliano. San Girolamo nel deserto (1505-1510)

Nel 1516 è di nuovo a Conegliano, dove muore tra il 1517 ed il 1518.
Secondo l'opinione di numerosi studiosi, il tratto particolare di Cima da Conegliano è proprio la rappresentazione del paesaggio, che emerge con forza nelle sue opere ed è contorno migliore per le figure di quanto non lo siano, almeno nel primo periodo, gli interni, che appaiono sacrificarle.



Cima da Conegliano. San Girolamo

Fondamentali, per la conoscenza dell'opera di Cima, oltre alla monografia di Peter Humfrey, pubblicata nel 1983, le due mostre di Treviso e di Conegliano, soprattutto la prima, del 1962, allestita da Carlo Scarpa, ed alla quale si riferisce Zanzotto, che hanno dato occasione agli studiosi di confrontarsi sul tema e di identificare le influenze della e sulla pittura veneta di questo artista.


⇒ (click) Per una sintesi dell'analisi critica si veda:Luigi Mengazzi, CIMA, Giovanni Battista detto Cima da Conegliano



lunedì 5 giugno 2017

Andrea Zanzotto e il paesaggio in Cima da Conegliano



Cima da Conegliano. Madonna dell'arancio (particolare)


In un prezioso libro edito da Bompiani, Luoghi e paesaggi, che raccoglie gli scritti in prosa del poeta Andrea Zanzotto sul paesaggio, tema caro all'autore e declinato più volte in poesia, è stato inserito un breve articolo, originariamente pubblicato nel 1962, su un piccolo giornale “La Provincia di Treviso”, in occasione della mostra dedicata da quella città al pittore Cima da Conegliano. 
Zanzotto, allora quarantunenne, aveva già visto il suo paesaggio veneto mutare profondamente. Nato a Pieve di Soligo nel 1921, aveva ereditato dal padre la passione per la pittura e, nel paesaggio veneto, era vissuto quasi ininterrottamente, tranne in un breve periodo trascorso in Svizzera ed in Francia da dopo la guerra al 1947.
Questi due fattori, l'immersione iniziale in un ambiente ancora assai simile a quello che si presentava agli occhi dei pittori che lo rappresentavano alla fine del medioevo, o come dice lo stesso Zanzotto, tra il declino del medioevo e gli inizi dell'età moderna, e l'esempio del padre pittore ed amante della pittura, soprattutto di quella di Corot, come ricorda in un altro scritto, Verso-dentro il paesaggio, che nel volume in questione, non a caso, viene inserito subito dopo quello su Cima da Conegliano, compongono, intatti ed apparentemente non scalfiti dalla realtà industriale che si va affermando nel periodo, un inno, di straordinario impatto emotivo, alla quieta bellezza del paesaggio veneto.




Cima da Conegliano. San Girolamo nel deserto


Qui il poeta non introduce l'elemento nuovo della naturalità ferita dal “progresso” e sembra dimenticare i mutamenti in atto, per privilegiare l'esaltazione della bellezza sottolineata dai dipinti del pittore che, come lui, aveva fatto del paesaggio veneto un elemento essenziale del suo discorso artistico.
Il paese veneto ha fatto la pittura veneta” afferma Zanzotto, che crede nella positività dell'intervento umano quando scrive, ad esempio “Il paese s'impone con la sua grazia violenta, piena rapida (può esserci una violenza della grazia, una sua fatalità). Le strutture geologiche, mare piana colli e vette tutti a portata d'occhio; il manto agreste condizionato dall'uomo, il manto boscoso (in altri tempi favolosamente esteso), gli alberi e il loro individuo definirsi nella fantasia dei fogliami, il soave trapasso di ciascuno di questi elementi nell'altro”. L'intervento umano è qui armonizzato con la natura ed il cenno alle selve, più folte un tempo, è percepito come una situazione remota, a discolpa sembra, dell'azione dell'uomo.
E nel descrivere l'opera di Cima da Conegliano la sua prosa si fa quasi poesia: “L'armonia veneta si atteggia qui in un suo sogno di onesta fanciulla, sogna se stessa come agreste e soda vitalità, che non vuol nemmeno sapere di quali fatiche e rischi vinti sia testimonianza: e i castelli premono pingui di logge finestre e torri, le stradicciole e le mura gironzolano per balze a misura d'uomo, la chiesetta conversa col querciolo che le fa compagnia, i dirupi si sciolgono in serenante accessibilità, le piante sono quelle che ci donano ombra e che portano dovizia sulla nostra tavola; le donne i giovani i bambini i vecchi vengono dalla campagna di sempre: salute baldanza grazia dignità immediate. E' quella di Cima, la variante in cui la realtà veneta appare come “distesa” in un mito benigno e terrestre, senza ieri né domani”.


Andrea Zanzotto (1921-2011) è stato più volte proposto per il premio Nobel per la Letteratura



Il Libro: Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani 2013 (a cura di Matteo Giancotti)