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giovedì 29 agosto 2019

Ambiente e territori. Agrigento. Un tempio perfetto.

Agrigento. Tempio della Concordia (D. Durissini)

Il tempio dorico della Concordia, ad Agrigento, costruito nel 430 a.C. è uno degli edifici sacri di epoca classica meglio conservati al mondo, ed uno dei più notevoli per quanto concerne la struttura. 
Realizzato su un basamento imponente, a causa dell'irregolarità del terreno sottostante, presenta una peristasi perfetta ed armoniosa di sei colonne in facciata e tredici ai lati, come prescritto dalla regola costruttiva classica che voleva lateralmente il doppio delle colonne più una.  
Alla cella, parte della quale si conserva ancora, si accedeva mediante un gradino. 
Nel VI sec. fu trasformato in chiesa cristiana e, per questo motivo, se ne mutò l'orientamento originario,verso est, inizialmente studiato, come appare da studi recenti, per allinearsi con il sole equinoziale di primavera, abbattendo il muro di fondo della cella e creando così un ingresso ad ovest. 
All'epoca, con ogni probabilità, la costruzione aveva già perduto quelli che gli esperti ritengono fosse stata la colorazione iniziale, proposta sulla copertura delle impalcature erette durante un recente restauro. Le colonne, di un bianco abbagliante, contrastavano allora con il fregio ed il timpano dipinti rispettivamente in blu e rosso. 
Oggi occorre fare uno sforzo notevole per immaginare qualcosa di tanto diverso dal colore uniforme e caldo del tufo calcareo, come del resto è difficile comprendere i complicati metodi di costruzione di questo come degli altri templi di Agrigento. Un gruppo di esperti ha perciò studiato e ricostruito le macchine che allora consentivano di spostare e sollevare i grossi elementi lapidei per la realizzazione degli edifici, mettendole in mostra accanto ai templi (Costruire per gli dei, da giugno a settembre 2019).

⇒(click) Per saperne di più sul tempio della Concordia


martedì 27 agosto 2019

"Scjaraçule Maraçule". La ricerca musicale di Giorgio Mainerio (1535-1582)

Taccuino Sanitatis Casanatense (XIVsec.)

Giorgio Mainerio, nato a Parma nel 1535 e morto ad Aquileia nel 1582, musicista e compositore, si distinse per la sua scarsa propensione alle disciplina ecclesiastica alla quale, in qualità di cappellano della chiesa di Santa Maria Annunziata, a Udine, era inevitabilmente sottoposto. 
Appassionato di musica e studioso dei canti popolari, si mormorava uscisse la sera, in compagnia di alcune donne, per partecipare a non ben specificati riti notturni e, per questo motivo, venne segnalato al tribunale dell'Inquisizione, che tuttavia non procedette contro di lui, non avendo riscontrato validi elementi per poterlo fare. Tuttavia le maldicenze della gente lo spinsero a trovare una sede sostitutiva nella basilica di Aquileia dove, nel 1578, divenne maestro di Cappella. Lì poté dedicarsi ai suoi studi sulla musica popolare e scrisse Il primo libro de' balli accomodati per cantar e sonar d'ogni sorte de instromenti, che apparve a Venezia, per le stampe di Angelo Giordano, nello stesso 1578. 
Tra i diversi pezzi musicali fa parte della raccolta anche il notissimo ed antichissimo Scjaraçule Maraçule, ripreso da Mainerio dalla tradizione popolare e cantato da un coro di voci contrapposte, maschili e femminili. Il canto, che il Pressacco annota essere derivato da un rituale dei Benandanti, accompagnava originariamente una cerimonia notturna in cui i partecipanti portavano canne (scjarazz) e finocchio (marazz) e propiziavano la fertilità della terra. 


I Benandanti contro i diavoli (stampa XVI sec.)
Secondo alcuni studiosi, tra i quali, appunto il Pressacco, questi antichissimi rituali contadini, invocanti la pioggia, costituirebbero la testimonianza del legame tra la chiesa aquileiese e quella di Alessandria d'Egitto, entrambe evangelizzate da San Marco, poiché proprio da quest'ultima deriverebbe l'uso delle danze sacre i cui ritmi monotoni, ripetuti e sempre più accelerati, che portavano all'estasi ed erano spesso svolti in presenza di acque, sembrano ritrovarsi nelle cerimonie cultuali contadine dell'antico Friuli.  
L'attuale versione del canto ne conserva la melodia ma non le parole, che furono scritte da Domenico Zannier nel XX secolo. Ne esistono innumerevoli esecuzioni.


⇒ (click) Versione eseguita con strumenti antichi

⇒ (click) Versione del canto, eseguita dagli allievi del liceo Stellini, che ne sottolinea il ritmo 

⇒ (click) Versione del canto che impiega il tamburello, come probabilmente avveniva in origine 

⇒(click) Il libro: Angelo Floramo, Forse non tutti sanno che in Friuli..., Roma, Newton Compton, 2017 (anche formato Kindle ed ebook)

⇒(click) Il libro: Carlo Ginzburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Torino, Einaudi, 1966 (PDF)

martedì 20 agosto 2019

Culture. Progetto per un teatro popolare (1899)

Antoine Meunier. Paris. Comédie Française


Nei primi giorni di aprile del 1899 Romain Rolland, intellettuale francese destinato a ricevere il Nobel per la letteratura nel 1915, scrive all'amica Malwida von Meysenbug una delle tante lettere che, in vent'anni di contatti epistolari, formano un corpus molto interessante per comprendere il panorama culturale europeo dell'epoca. In questa occasione chiede il suo aiuto per contattare le persone che ritiene più adatte a fornire delle indicazioni per un grande progetto per lo studio e la realizzazione di un Teatro popolare, che intende portare avanti assieme a Maurice Pottecher ed a Lucien Besnard, direttore di La Revue d'art Dramatique.
Approfittando dell'Esposizione universale, che si terrà a Parigi l'anno seguente (1900) e della visibilità che l'avvenimento potrebbe dare al congresso "di studi e d'azione" che vogliono organizzare, i promotori intendono raccogliere le idee ed i suggerimenti di coloro che hanno già realizzato un teatro popolare o che sono interessati all'argomento per poter infine fondare un teatro d'essai, ovvero un teatro modello in una o più grandi città europee.

Nous organisons en ce moment un Congrès d’étude et d’action, dont l’objet est le Théâtre populaire. Nous voulons grouper les efforts multiples (parfois même opposés) qui sont disséminés dans toute l’Europe pour fonder un art de tous, et non de quelques privilégiés. – Pour cela nous voulons leur fournir un terrain de discussion générale et d’entente, en conviant nos amis Européens à un congrès, qui aura lieu l’an prochain, à Paris, à l’occasion de la centralisation d’idées créée par l’Exposition, – et dès à présent, en faisant appel à leurs communications, à leurs pensées, par une grande Enquête sur le théâtre populaire, que va organiser une revue parisienne.

da Romain Rolland, Choix de lettres à Malwida von Meysenbug cahier n° 1

Organizziamo, in questo momento, un Congresso di studio e d'azione, l'oggetto del quale è il Teatro popolare. Vogliamo riunire gli sforzi multipli (anche se opposti) che sono disseminati in tutta l'Europa per fondare un'arte di tutti, e non di pochi privilegiati. Per questo vogliamo fornire loro un terreno di discussione generale e d'intesa, riunendo i nostri amici europei in un congresso, che avrà luogo l'anno prossimo a Parigi, in occasione dell'accentramento di idee creato dall'Esposizione e, fin d'ora, facendo appello alle loro comunicazioni, ai loro pensieri, per una grande ricerca sul teatro popolare, che sta organizzando una rivista parigina.

(trad. Daniela Durissini)

Il fine ultimo di questa iniziativa era quello di rendere disponibile l'arte per tutti e di dar così voce alla maggioranza delle persone, allora esclusa, in qualche modo, dalla bellezza e ciò, sempre secondo le parole di Rolland, attraverso la formazione di un'arte "che impieghi l'anima di tutti per la gioia di tutti".
Queste idee sono davvero rivoluzionarie per l'epoca e gli organizzatori del congresso riuscirono a coinvolgere personaggi del calibro di L. Tolstoj, molto amato da Rolland, che ne scriverà una celebre biografia, F. Mistral, scrittore e poeta francese insignito del premio Nobel per la Letteratura nel 1904 e B. Bjornson, il drammaturgo norvegese premio Nobel per la letteratura nel 1903.




giovedì 8 agosto 2019

I grani antichi della piana di Selinunte




Nell'ambito del Parco Archeologico di Selinunte sono stati seminati grani antichi che vengono raccolti nel periodo estivo. Il progetto di valorizzazione del sito e del suo patrimonio agricolo fa riferimento all'antica vocazione della regione dato che la città greca, fondata nel 650 a.C., da coloni provenienti da Megara Iblea, sfruttava la favorevole posizione, tra le foci dei fiumi Cottone e Modione, per la messa a coltura della fertile piana che ne era compresa, come ampiamente dimostrato anche dalle evidenze archeologiche della zona. Nei dieci ettari del Parco destinati a questo esperimento vengono coltivati, oltre ai grani, anche lenticchie e ceci, legumi che facevano parte del sistema alimentare della Selinunte antica.


⇒(click) Per saperne di più:  A Selinunte si rinnova la mietitura del "grano degli dei"


mercoledì 7 agosto 2019

José Maria Arguedas. El zorro de arriba y el zorro de abajo (La volpe di sopra e la volpe di sotto)



Ho letto El zorro de arriba y el zorro de abajo, di Arguedas, opera ultima e molto particolare dello scrittore peruviano che, pur meritandolo, non vinse il premio Nobel per la Letteratura. 
Il libro raccoglie le pagine degli ultimi diari di Arguedas, scritte nell'anno che ne precedette la morte, e le pagine, in parte non riviste, del suo ultimo romanzo, ed è interessante per almeno due ragioni: innanzitutto perché la raccolta, un po' confusa ed incompleta, rappresenta il testamento morale di quest'uomo colto e fragile, che ha attraversato quasi tutta la vita in preda a crisi di depressione e sconforto che, più di una volta, prima di quella definitiva, l'hanno portato sull'orlo del suicidio, e poi perché qui, nella parte narrativa del libro, sono raccolti tutti i temi cari all'autore e viene introdotto quello, nuovo, se si vuole, dello sviluppo industriale del paese, processo in mano ad imprese straniere che, di fatto, ne stravolgono l'essenza. 
Arguedas non ha potuto completare la prima stesura del romanzo perché è morto suicida, il 2 dicembre del 1969, quattro giorni dopo essersi sparato un colpo di pistola, esattamente come aveva scritto nei suoi ulitmi messaggi, pubblicati in fondo al volume, curato dalla vedova. Ovviamente non ha potuto nemmeno rileggere e correggere ciò che aveva scritto fino ad allora ma, programmando il suo gesto disperato, aveva anticipato, a grandi linee, la conclusione delle diverse storie che si intrecciano nel lungo racconto. E sono storie forti e magnifiche, che rappresentano una realtà ch'egli aveva conosciuta direttamente, visitando la città portuale di Chimbote, centro di pesca più importante del paese, dove l'industria della trasformazione del pescato aveva richiamato molta gente dalle sierre in cerca di una vita migliore e sfruttata invece dall'industria, cieca di fronte alle necessità umane, ed interessata solo al guadagno ad ogni costo. 
S'era alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso e la sensibilità di Arguedas già comprendeva il disastro che le multinazionali avrebbero provocato nei paesi dell'America del Sud, contribuendo alla distruzione di intere popolazioni, svilite dal nuovo assetto economico dei diversi paesi, private del loro habitat naturale, costrette a piegarsi alla legge dettata da chi manovra interessi sovranazionali e molto denaro.
La volpe di sopra e quella di sotto si parlano, sono due voci contrapposte che ci svelano la realtà delle montagne del Perù, dove la gente vive ormai con fatica la quotidianità, fatta di sacrifici e di duro lavoro, e la realtà della città, dove molti arrivano, scendendo da quelle stesse montagne, come scendono le acque dei fiumi profondi, tanto amati da Arguedas e che tornano qui a simboleggiare un tempo definitivamente trascorso ed a sottolineare la fatalità del non ritorno e la sparizione dei pueblos d'altura che, come le acque, scendono a valle. Qui si ritrovano in quartieri periferici e sporchi, in condizioni di vita terribili, pagando un prezzo altissimo, anche in termini di vite umane, per esser stati impiegati nelle miniere di carbone o nell'industria della pesca, senza alcuna tutela, sostituiti con facilità da altri uomini, disposti a sacrificarsi per poter vivere una vita breve e terribile. 
Arguedas, a sua volta colpito da questa realtà alla quale si sente estraneo, è capace qui di tracciare un quadro sublime delle condizioni di vita di queste popolazioni e di indicare, con rara precisione, le colpe ed i colpevoli, ma sa che la sua è una voce isolata, controcorrente e, tutto sommato, sgradita, in un paese che punta invece molto sull'industria e sui nuovi insediamenti, curandosi poco o nulla della civiltà millenaria che va scomparendo. 
Di grande interesse anche le pagine del diario, soprattutto quelle in cui viene riportata la polemica con alcuni degli scrittori più noti del mondo latino-americano, come Cortazar e Vargas Llosa. Anche qui si comprende come Arguedas fosse diverso e distante da coloro che scrivevano per un tipo diverso di industria, quella letteraria, capace anch'essa però di fare enormi danni alle culture indigene ed alla cultura in generale. 
Arguedas ha combattuto, fino alla fine, dalla parte degli indios del Perù, l'ha fatto a suo modo, attraverso le sue opere, il suo insegnamento all'Università, il suo mestiere di antropologo. La sua produzione letteraria e scientifica, spesso incompresa perché forse di difficile comprensione, contiene la denuncia del degrado ed è azione di protesta molto forte. Tuttavia si trovò spesso in contrasto proprio con quel movimento indigenista che trovava i suoi scritti troppo romantici ed idealizzanti la dura realtà in cui vivenano le popolazioni andine. 
In realtà non ci fu nessuno scrittore che, a par suo, seppe cogliere la trasformazione dei pueblos peruviani come quest'uomo, innamorato della sua terra e di una cultura che, pur non appartenendogli per nascita, aveva appreso fin da bambino dai domestici di casa, che lo avevano allevato secondo la tradizione quechua. Lui aveva imparato a condividerla e ad amarla e l' aveva fatta sua, vivendo un'intera vita diviso tra due culture contrapposte ma volgendosi sempre, di preferenza, a quella indigena.







giovedì 1 agosto 2019

Culture. Pietro Santi Bartoli e l'immagine di Roma

P.S. Bartoli, Colonna Traiana, 1673. Danubio
Colonna Traiana Danubio
Roma. Colonna Traiana. Danubio (foto Daniela Durissini)

Pietro Santi Bartoli, pittore ed antiquario italiano, nato a Perugia nel 1635 e morto a Roma, nel 1700, allievo dei pittori francesi Le Maire e Poussin, è noto soprattutto per le sue riproduzioni di monumenti ed opere d'arte della Roma antica. Di alcuni di questi monumenti propose anche la ricostruzione.
Come antiquario lavorò per il pontefice e per la regina Cristina di Svezia; come incisore ed acquafortista, si fece notare per le sue opere straordinarie dedicate alla riproposizione dell'apparato scultoreo della Colonna Traiana e di quella di Marco Aurelio, ma anche per i cataloghi accurati di alcuni manufatti come quello delle lucerne sepolcrali figurate o quello dei sepolcri romani ed etruschi ritrovati a Roma "ed in altri luoghi celebri". Di grande precisione anche la riproduzione del celebre manoscritto miniato del Virgilio Vaticano, e quella degli affreschi della tomba dei Nasoni. 
Malgrado l'apprezzamento incondizionato del Winckelmann, dovuto anche alla propensione del Bartoli per l'archeologia ed alle molte riproduzioni utili alla ricerca ed al confronto, le sue opere furono spesso considerate fredde e prive di personalità, mera esecuzione dunque, benché diligente. 
Ciò nonostante occorre riconoscere che a lui, che le riprodusse, si devono le collezioni di gemme e monete della regina Cristina di Svezia, ed ancora a lui si deve la conoscenza dettagliata di monumenti altrimenti di difficile accesso. Un episodio per tutti: per la riproduzione dei bassorilievi della Colonna Traiana, fece erigere delle impalcature tutto intorno alla stessa e ci mise molti mesi per rendere, pezzo per pezzo, l'intera storia così come scolpita originariamente. Delle sue tavole, incise su rame e poi stampate, di una precisione eccezionale per l'epoca, si avvalsero in seguito e per molto tempo studiosi e semplici appassionati. 





(click) Qui si trovano molte delle opere di Pietro Santi Bartoli  (Internet Archive)


La casa editrice romana Arbor SapientiaE ha pubblicato un'edizione numerata e limitata di Pietro Santi Bartoli, ColonnaTraiana, disegni, intagli e commenti (1673), Roma, 2017