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martedì 27 aprile 2021

Ambiente e territori. Da rifugio a rifugio

Un tempo c'erano i vecchi rifugi, costruiti in legno, che odoravano di bosco, dotati di spazi tutti comuni, dai cameroni alla sala da pranzo. I bagni erano assolutamente essenziali ed il riscaldamento, spesso un'utopia. Di sera ci si ritrovava tutti in cucina attorno al fuoco o in sala da pranzo, dove si accendeva la stufa a legna, che serviva anche ad asciugare i vestiti (non di rado nel tentativo di asciugarli più in fretta si bruciacchiavano, ma tant'è...si potevano rammendare). Quando si usciva dal rifugio si puzzava di fumo, di salsicce e polenta. I bivacchi poi, erano assolutamente essenziali, quando non ci si doveva accontentare di un riparo sotto roccia (v. il Bivacco Edvige Muschi al Montasio).

Rifugio Brunner (foto Daniela Durissini)

Attorno agli anni '70 del secolo scorso si iniziò a pensare ad un altro tipo di ricovero, che potesse ovviare a molti dei problemi delle costruzioni classiche, primo fra tutti quello dell'isolamento dell'edificio, che doveva sopportare grandi escursioni termiche in ambienti, tra l'altro, soggetti a lunghi periodi di maltempo ed alle intense nevicate invernali. Un architetto visionario, il finlandese Matti Suuronen, fu tra i primi a concepire un simile edificio. 

Monaco di Baviera. Futuro-haus (foto Daniela Durissini)


La Futuro-haus, ideata e realizzata nel 1968 dall'architetto finlandese Matti Suuronen (1933-2013), interamente in resina poliestere insatura, vetroresina e poliacrilato, prodotta in serie, ricorda una navicella spaziale, come la si concepiva all'epoca, un disco volante, simbolo della fiducia nel futuro e nella tecnologia. Era stata pensata dal suo ideatore per essere montata in fabbrica e quindi trasportata sul posto in cui doveva venir istallata, con la possibilità di comporre più elementi insieme. La cellula originale è esposta, tra l'altro a Monaco di Baviera ed a 👉📖 Londra. Tra le possibili utilizzazioni Suuronen aveva pensato anche all'impiego in ambiente montano, tanto per le caratteristiche di robustezza ed isolamento del piccolo edificio, quanto per la facilità di realizzazione e trasporto dello stesso che non avrebbe richiesto lunghi tempi di permanenza in quota. 

Dovevano passare tuttavia ancora diversi anni per vedere i primi edifici realizzati in montagna, rsecondo le nuove esigenze e le nuove tecniche a disposizione. I primi, ovviamente, furono i bivacchi, per le ridotte dimensioni, che consentivano il trasporto in loco di elementi prefiniti, e per la necessità di ovviare in tempi brevi a quelli che erano i principali difetti di quelli precedenti, i classici ricoveri a botte, con pochi posti e permeabili alle temperature esterne. Sorsero così, dapprima sulle Alpi Occidentali e poi un po' dovunque bivacchi, che sapevano sfruttare molto meglio gli spazi interni e che andavano ad inserirsi, certo in modo più impattante, sul territorio. 

👉Bivacco Gervasutti CAI Torino 



Monte Rosa Hütte (foto Carlo Nicotra)

Infine le nuove tecnolgie sono arrivate anche, alle volte con non poche polemiche, ai piedi delle grandi montagne. I vecchi e desueti rifugi, che richiedevano molta e continua manutezione, sono stati sostituiti da nuovi edifici, concepiti per poter sfruttare al meglio la luce del sole e per produrre calore ed energia, per poter resistere a condizioni metereologiche estreme, e per poter ospitare comodamente gli alpinisti di passaggio, secondo quelli che sono i parametri attualmente richiesti per l'ospitalità in alta montagna. 

Alcuni di questi edifici sono esteticamente molto validi, altri meno, certamente rispondono alle esigenze dell'alpinismo di oggi, anch'esso assai mutato rispetto a quello di qualche decennio fa, con l'adozione di nuovi materiali ed attrezzature che hanno consentito, in pochissimi anni, di progredire nella tecnica e nei risultati e di risolvere quelli che rimanevano i problemi lasciati in sospeso dai grandi alpinisti del secolo passato.

venerdì 23 aprile 2021

Fotografare l'arte. Il busto di Adriano (130 d.C.)

Che cos'è l'insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri ragionamenti, sillogismi, definizioni tutte sue, il suo rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o alla saggia follia dei sogni?

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano


Monaco di Baviera. Leihgabe Staatliche Antikensammlungen und Glyptothek
Busto di Adriano (foto Daniela Durissini)

Lo splendido busto in marmo dell'imperatore Adriano (130 d.C.) esposto al Leihgabe Staatliche Antikensammlungen und Glyptothek


martedì 20 aprile 2021

Archeologia. Una grande piramide agli inizi dell''800.

Monaco di Baviera. Museo Egizio 
Veduta particolare di una grande piramide da Ovest.
Tratta da Frédérc Cailliaud, Voyage à Méroé
(foto Daniela Durissini)


Veduta particolare di una grande piramide da Ovest, come appare nel volume del naturalista Frédéric Cailliaud (1787-1869), che agli inizi del XIX secolo viaggiò per diversi anni in Egitto, Nubia ed Etiopia. Cailliaud fece delle osservazioni molto interessanti che non si limitarono alla natura, ma fu molto preciso anche per ciò che riguardava tutti gli altri aspetti dei territori che attraversava. Il suo lavoro, pubblicato nel 1826, messo oggi a disposizione (tomo 2 di 4) on line dalla BNF nella sezione Gallica, fu accompagnato da una serie di tavole che riproducono alcuni di questi aspetti. Non tutte le copie del volume hanno mantenuto nel tempo l'intero apparato delle riproduzioni. Qui l'interessante grande piramide, non lontana dal Nilo. Interessante osservare il culmine della costruzione, come si presentava all'epoca. L'immagine originale è conservata a Berlino, presso l'Ägyptisches Museum und Papyrussamlung (F. Cailliaud, Voyage à Méroé, Tafelband pl. XLI).

►(click) Frédéric Cailliaud, Voyage à Méroé, au Fleuve Blanc au-del° de Fazoql, dans le midi du royaume de Sennâr, à Syouah, et dans cinq autre oasis; fait dans les annèes 1819, 1820, 1821 et 1822, Parigi 1826 (BNF, Gallica)

venerdì 16 aprile 2021

Fotografare l'arte. La "Poesia" di Eladio de la Cruz (Canarie, Tenerife)

Garachico. Ex convento di San Francesco
Eladio de la Cruz. Poesia (foto Daniela Durissini)

In tutte le pietre del monte, nei ceppi della foresta, l’anima imprigionata soffoca, e invoca l’artigiano. Chi grida non è demone, dio, o alito di vento; è la tua anima schiava che geme e invoca la libertà! Una notte che tutto solo dormo nella bottega, a un tratto sento una pietra che grida nell’oscurità, è la mia anima schiava imprigionata nella pietra; balzo subito su dal sonno e afferro gli strumenti. Alla fioca luce del lume prendo a scolpire il sasso, demolisco i muri del carcere, libero l’anima; e finalmente all’alba la testa divina emerge, neonata e felice, a respirare l’aria pura. Mentre le libero piano il petto, le spalle, i fianchi, e dalla pietra sale alla luce, mi si liberano la testa schiava, la mente, il petto, le spalle, i fianchi.

Nikos Kazantzakis, Odissea


►(click) L'opera dell'artista canario Eladio de la Cruz

martedì 13 aprile 2021

Ambiente e territori. La casa carsica monocellulare (Trebiciano)

Trebiciano. Casa monocellulare (foto Daniela Durissini)

Quando, molti anni fa, stavamo scrivendo la nostra prima guida sul territorio carsico, giunti a Trebiciano annotammo: "Dal piazzale antistante la chiesa, dove si può parcheggiare l'automobile, ci si inoltra per una stradina che passa a lato della scuola e che, in breve, conduce all'anagrafico 107; si tratta di una costruzione ad un solo piano, molto antica, ma purtroppo mal conservata. Di anno in anno l'edificio si deteriora sempre più, senza che si intervenga per salvare questa testimonianza importantissma della cultura contadina, uno dei pochi esempi di architettura rurale monocellulare. Il focolare esterno, con copertura a lastre, è molto importante poiché rappresenta la diffusione, nelle case in pietra, di una tipologia adottata inizialmente nei soli casoni in paglia, per prevenire gli incendi provocati dal fuoco acceso al centro dell'abitazione. la copertura del tetto è in coppi". 

La casa nel 1989 (foto Carlo Nicotra)

Nel frattempo sono passati molti anni e la struttura è stata restaurata ed intonacata, mentre il forno esterno ha mantenuto la  copertura in lastre di pietra. È diventata Museo etnografico nel 2001. È nota come casa Ljenčka, dal nome della sua ultima proprietaria, Helena Stock, soprannominata appunto Ljenčkica, e deceduta nel 1929. Da allora la piccola abitazione era rimasta abbandonata. Oggi vi si possono organizzare delle mostre, per le quali l'ambiente rappresenta uno sfondo davvero unico. 

►(click) Daniela Durissini, Carlo Nicotra, Guida agli itinerari architettonico-ambientali del Carso Triestino. Arte, architettura, ambiente, storia, Trieste, Lint, 1989.

venerdì 9 aprile 2021

Fotografare l'architettura. Dove l'acqua è un bene prezioso (Tisno, Croazia)

Croazia. Tisno (foto Daniela Durissini)


Nella cittadina di Tisno, in Croazia, l'acqua era da sempre un bene prezioso e raro. Tutti i sistemi di raccolta tipici delle zone carsiche aride venivano adottati per poter conservare ogni goccia d'acqua da sfruttare per coltivare i campi, abbeverare gli animali ed anche per l'uso quotidiano dei pochi abitanti. Questa fontana è particolarmente interessante, poiché racconta la storia della raccolta dell'acqua piovana, filtrata, conservata nelle cisterne e poi restituita all'uso comune. 


martedì 6 aprile 2021

Culture. L'antica arte dell'intreccio



Alta Valle dell'Isonzo. Cesto realizzato all'intreccio (foto Daniela Durissini)

Talvolta, camminando lungo i sentieri montani, si vedono ancora, appoggiati alle pareti degli stavoli, spesso quasi dimenticati ed in pessimo stato di conservazione, i vecchi attrezzi fabbricati ed utilizzati dai contadini e dagli allevatori del posto, per praticare il loro mestiere. Si tratta di arnesi in legno che venivano confezionati in casa, secondo l'uso tramandato da generazioni. Dove necessitava una lama si ricorreva al fabbro o si riutilizzavano quelle a disposizione, già impiegate in attrezzi simili, come ad esempio nelle falci, dal lungo manico, impiegate nella fienagione. Assai caratteristici gli oggetti realizzati ad intreccio, sfruttando i sottili rami flessibili di alberi ed arbusti presenti sul territorio. In questo modo si creavano le gerle della Carnia e del Friuli ed i cesti tipici di alcune zone della Slovenia, ma anche le scope e gli scovolini. L'antichissima arte dell'intreccio, in realtà, era da secoli piuttosto diffusa nel mondo contadino, un po' dovunque, e non era una caratteristica della montagna, data la diffusa disponibilità del materiale e la necessità di creare contenitori capaci per raccogliere e trasportare i prodotti della terra ed il fieno. Tra le piante utilizzate, a seconda delle zone, si trovano il nocciolo, la vitalba, il salice rosso, il sanguinello, l'ulivo, l'asfodelo, il giunco, il lentisco, e molti altre, tutte unite dalla caratteristica resistenza e flessuosità dei rami sottili che venivano accuratamente scelti per essere poi piegati dalle mani esperte degli artigiani. Sul Carso triestino e sloveno, ad esempio, venivano usati per lo più la clematide ed il salice da vimini.
Il grande cesto riportato in foto proviene da uno stavolo montano della valle dell'isonzo, in Slovenia, è di fattura piuttosto grezza ma molto robusto, ed era destinato al trasporto a valle del fieno raccolto sul grande altipiano, alto sopra il corso del fiume, ma anche a contenere le pietre che venivano alzate dall'aratro nelle operazioni di dissodamento del terreno, la legna raccolta nei boschi circostanti o i prodotti raccolti sul campo; probabilmente poteva essere trascinato dalle bestie da soma, o esser fatto scivolare per brevi tratti sui terreni ripidi, come si può evincere dai rinforzi posti sotto la struttura, ed anche al'interno della stessa; risale senz'altro alla prima metà del secolo scorso. 

Oggi l'arte dell'intreccio è stata recuperata in diverse località, per creare oggetti decorativi ma anche di utilizzo quotidiano, come i cesti per riporre gli ortaggi o la frutta. 

►(click) Ecco come l'arte dell'intreccio rinasce in Toscana; L'esempio della Sardegna


venerdì 2 aprile 2021

Fotografare l'arte. Grado. Sarcofago romano (II-III sec. d. C.)


Grado. Lapidario. Fronte di sarcofago (sec. II-III d.C.)
(foto Daniela Durissini)

Nel piccolo ma bellissimo lapidario di Grado sono conservati alcuni frammenti di monumenti funebri di epoca romana tra cui spicca la lastra di sarcofago architettonico, ad arcate, e di fattura finissima, che rappresenta una scena di banchetto con la defunta distesa sul triclinio. Questo particolare, assieme all'evidente e massiccio uso del trapano, generalmente non impiegato nelle produzioni aquileiesi, ed agli elementi vegetali che riempiono i pennacchi degli archi hanno fatto propendere alcuni studiosi per una provenienza certamente forestiera, probabilmente urbana e forse asiatica. L'estrema parcellizzazione del manufatto non consente una datazione precisa nè l'individuazione della committenza.

Sarcofago (sec. II-III d.C.) Particolare (foto Daniela Durissini)


►(click) Fulvio Canciani, I sarcofagi di Aquileia. in "Antichità Altoadriatiche, XXIX (1987), vol. 2, Vita sociale, artistica e commerciale di Aquileia Romana, pp. 401-418. (pdf)