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venerdì 30 marzo 2018

Pensieri d'autore. Paul Verlaine. "Piange nel mio cuore"

C. Pissarro. Boulevard Montmartre di notte (1897). National Gallery, Londra

Il 30 marzo del 1844 nasceva a Metz Paul Verlaine,  considerato dai contemporanei l'iniziatore della scuola simbolista. 
Una poesia per ricordare una figura controversa, una vita sofferta ed un grandissimo poeta.







Piange nel mio cuore

Piange nel mio cuore
Come piove sulla città.
Cos'è questo languore
Che penetra il mio cuore?
O dolce brusio della pioggia
A terra e sopra i tetti!
Per un cuore che si annoia
Oh il canto della pioggia!
Piange senza ragione
In questo cuore che si accora.
Cosa! Nessun tradimento?
Questo dolore è senza ragione.
E' certo la peggiore pena
Di non sapere perché
Senza amore e senza odio
Il mio cuore ha tanta pena.

(da Paul Verlaine, Romanze senza parole, Milano, Feltrinelli, 2007, a c. di C. Viviani)

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Erto e la rappresentazione della Passione



Giotto. Crocifissione. (Padova. Cappella degli Scrovegni)

In un lontano giorno del 1631, la piccola comunità di Erto, nella valle del Vajont, colpita da una grave epidemia di peste, fece un voto, per favorire l'allontanamento della malattia, e promise che, se fosse stata esaudita, avrebbe rievocato, tutti gli anni, la Passione e la morte di Gesù, con una rappresentazione in costume. 
Dato che, effettivamente, la pestilenza si esaurì, da allora gli abitanti del paese impersonano i diversi personaggi del racconto biblico e, la sera del venerdì che precede la Pasqua, danno luogo ad una rappresentazione che, ormai molto conosciuta, attira migliaia di persone. 
Sono in genere sempre le stesse famiglie a farsi carico di un personaggio, che viene tramandato così di padre in figlio, e reso con una partecipazione straordinaria e con un verismo che, alle volte, assume l'aspetto dell'espiazione. 
La Passione di Erto si interruppe sono negli anni che seguirono la tragedia del Vajont, quando la diga crollò e l'acqua travolse i paesi, provocando più di duemila morti. 
Nel 1966 si riprese, con fatica, ma mancavano all'appello molti dei personaggi, come ricorda lo scrittore Mauro Corona, nella presentazione del bel libro di Italo Filippin "la Via Crucis di Erto". Lui stesso, che allora aveva sedici anni, venne reclutato su due piedi, nella parte di Giuda: 




"Allora frequentavo il collegio Don Bosco di Pordenone e mi trovavo a Erto per le vacanze. La mattina del Venerdì Santo, sulla piazzetta del paese, un gruppetto di gente discuteva animatamente. Mi avvicinai per curiosare. «Eccolo qua il nuovo Giuda» esclamò Giacomo Conte segnandomi col dito. Lui aveva interpretato il traditore per più di trent’anni e non voleva più saperne. Celeste Corona mi spiegò che stavano tentando di rimettere in piedi la Processione e, per quella sera, avevano urgente bisogno di un Giuda. Accettai con qualche ansia: incominciare a tradire a 16 anni è un impegno che fa riflettere. Ma, a essere sinceri, non era quello il problema. Il timore era dato più che altro dal fatto che avrei dovuto imparare la parte a memoria in poche ore.Da quel giorno, per vent’anni, ho tradito Cristo al posto di Giacomo Conte. E, come il grande Bela Lugosi che a furia di interpretare Dracula si calò talmente nella parte che quando impazzì s’aggirava torvo per le vie della città ad aggredire la gente per cavargli il sangue, anch’io, affascinato dal mio personaggio, ho continuato a tradire nella vita."

Ci furono, negli anni, anche degli attriti significativi con la Chiesa, dato che la rappresentazione era stata giudicata troppo veritiera: "Sembra che se la godano a far fuori il Cristo" sembra abbia esclamato un prete locale, che non ne volle sapere di condividere la Via Crucis inscenata dalla popolazione. Oggi è pace fatta ed i circa ottanta attori che percorrono le strade del paese al rullo cupo dei tamburi, sono più preparati e soprattutto, come afferma sempre Mauro Corona, sobri, pertanto non danno luogo a scandali ed esagerazioni che potrebbero urtare la sensibilità del pubblico e dei credenti. 



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giovedì 29 marzo 2018

Orhan Pamuk ed il ritratto di Mehmet II

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Il 29 marzo del 1432 nasceva ad Edirne
Mehemet II detto Fatih (il Conquistatore)
Settimo sultano dell'impero ottomano


Gentile Bellini. Ritratto di Mehemet II (1480)

Nel settembre del 1479 giungeva ad Istanbul, su richiesta di Mehmet II, il pittore Gentile Bellini, inviato dall'amministrazione veneziana, per soddisfare il desiderio del sultano, di avere presso di sé un artista italiano in grado di produrre alcune opere d'arte nello stile tanto ammirato dal temibile sovrano. Bellini si fermò presso la corte ottomana per più di un anno, tornando in Italia appena nel gennaio del 1481 e certamente seppe soddisfare Mehmet, il quale decise di farsi ritrarre, sfidando le ferree regole dell'islam che vietavano la rappresentazione della persona.  
Il Vasari riferisce di un rapporto personale molto stretto tra l'artista ed il sultano, che indubbiamente dovette facilitare la scelta di quest'ultimo di posare per questo dipinto.
L'opera si trova oggi alla National Gallery di Londra, ceduto dalla vedova dell'archeologo Layard, il quale aveva abitato a Venezia per qualche tempo e lì ne era venuto in possesso acquistandolo da un collezionista privato. 
Il sultano dipinto dal Bellini sembra affacciarsi ad una finestra, rappresentata da un arco riccamente decorato e da una balaustra dalla quale pende un drappo cosparso di pietre preziose. Il busto girato a tre quarti, lo sguardo distolto, la stessa prospettiva che allontana la figura, restituisce un'impressione di distacco e di regale superiorità. Il sultano indossa abiti ricchi, un caffettano rosso scuro con il collo di pelliccia, ed un turbante. 
L'opera rappresenta una perfetta sintesi tra l'arte rinascimentale italiana e quella islamica, favorita da Mehmet II; questa fruttuosa collaborazione si estinse subito dopo la morte del sultano, avvenuta nel 1481, pochi mesi dopo che Gentile Bellini aveva fatto ritorno in Italia, forse portando con sé proprio questo ritratto, ritrovato da Layard a Venezia nel 1865. 

Di quest'opera scrive Orhan Pamuk nel suo Altri colori: "Non esiste un solo turco alfabetizzato che non abbia visto centinaia, migliaia di volte quel dipinto appartenente alla National Gallery, attraverso diverse copie, varianti vecchie e più recenti, e riproduzioni su testi scolastici, copertine di libri, giornali, poster, banconote, francobolli, manifesti didattici e fumetti. Nessuno dei sultani della fase d'espansione dell'impero ottomano, compreso Solimano il Magnifico, è ritratto in modo così efficace e incisivo. Per il realismo, la semplicità e quella specie di aureola conferita dall'arco tracciato con regolare prospettiva e ombreggiatura sopra il sovrano vittorioso, questo ritratto non raffigura solo Mehmet il Conquistatore, ma funge, come quella del "rivoluzionario" Che Guevara, da icona del sultano ottomano, valida non solo in Turchia ma in tutto il mondo.".

(da Orhan Pamuk, Altri colori, Torino, Einaudi, 2008, p. 385)


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mercoledì 28 marzo 2018

Una notte sul Monte Calvo


F. Goya. Sabba (1795)

Il 28 marzo del 1881 moriva a San Pietroburgo Modest Petrovic Musorgskij, compositore, autore, tra l'altro, del poema sinfonico Una notte sul Monte Calvo, che il grande pubblico ha conosciuto quando venne inserito nel film Fantasia, in cui fu utilizzato un arrangiamento di Rimskij- Korsakov. 
Pochi sanno però che una delle versioni dell'opera, pensata per essere inserita al III atto di un'opera collettiva, Mlada, che non fu mai realizzata, era intitolata Una notte sul Monte Triglav. Lo spartito di questa versione è andato perduto.
Fin da giovane Musorgskij aveva pensato ad una composizione ispirata al racconto, inconsueto, di Gogol, La sera della vigilia di san Giovanni, inserito nella raccolta Veglie alla fattoria presso Dikan'ka, ma la gestazione dell'attuale poema sinfonico fu lunga e subì numerose rielaborazioni. Fu completato solo nel 1867, con il titolo La notte di San Giovanni sul Monte Calvo
La località, dove si svolgerebbe il sabba rappresentato dal compositore, sarebbe il Monte Lysa Hora, in Ucraina. 



⇒(click) Una notte sul Monte Calvo (youtube)


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Fotografare l'architettura. Vipava (Slovenia)

Torre del Tabor degli Edling ed antico ponte sul fiume Vipava (Vipacco)

Vipava (foto Daniela Durissini)

Quando Costantinopoli divenne Istanbul


Costantinopoli. Ponte di Galata (foto fratelli Abdullah)

Il 28 marzo del 1930 la città turca di Costantinopoli cambiò ufficialmente il nome in Istanbul, contestualmente anche l'antica Angora diventò Ankara. 
Non si tratta di una semplice curiosità, ma di un evento importante perché inserito nell'ambito di cambiamenti epocali per la Turchia.

Mustafa Kemal sulla copertina del Time (1923)
La città, già da qualche anno, non era più la capitale dello stato, trasferita, appunto ad Ankara, il 23 ottobre del 1923, su decisione dell'Assemblea Nazionale. Quest'ultima città, oggi la seconda della Turchia per popolazione ed attuale capitale, era divenuta la sede del governo rivoluzionario guidato da Mustafa Kemal, che assunse in seguito il nome di Atatürk  (padre dei Turchi), nel 1919, dopo la sconfitta, avvenuta nel 1918, dell'impero ottomano. 


Mustafa Kemal nel 1918
Erano gli anni in cui lo stesso Atatürk, divenuto il primo  presidente, aveva imposto al paese una decisa svolta verso l'Occidente, dotandolo di una moderna Costituzione, facendo della Turchia uno stato laico, e rifondando le basi stesse delle convivenza tra i cittadini dello stato. Gli ordini religiosi erano passati sotto il controllo statale, era stati aboliti il califfato, la poligamia, l'uso del fez e del turbante, l'uso del velo islamico per le donne negli uffici pubblici, era stata riconosciuta la parità tra i sessi, erano stati introdotti l'alfabeto latino, il calendario gregoriano, ed il sistema metrico decimale. Inoltre erano stata resa obbligatoria l'adozione del cognome, prima d'allora inesistente. Lo stesso Mustafa Kemal, poté chiamarsi ufficialmente Atatürk, dopo l'adozione di questo provvedimento.


 Atatürk primo presidente della Turchia
Ma tornando ad Istanbul, è bene ricordare che la città era conosciuta in Occidente con due nomi diversi, dapprima Bisanzio e poi, appunto Costantinopoli. Il primo nome le venne dato dai coloni greci, provenienti da Megara, che la fondarono nel VII secolo a.C., in onore del loro re Byzas, il secondo era destinato a ricordare la figura dell'imperatore Costantino I, e le fu assegnato quando vi fu trasferita la capitale da Roma. 
Il nome Istanbul, invece, sembra derivare dal greco εἰς τήν πόλιν, che significa "verso la città", ed era in uso fin dalla conquista turca, nel 1453. 



lunedì 26 marzo 2018

Ricordi di un viaggio in Siria. L'hotel Zenobia a Palmira


Tramonto a Palmira (foto Carlo Nicotra)

Nel 2003, in un tempo in cui la guerra era ancora lontana, ma in cui già si sapeva, sapevano, che un giorno il paese si sarebbe svegliato sotto le bombe, andammo a Palmira. Man mano che la strada nel deserto si avvicinava alla mitica città carovaniera, il sogno, coltivato da sempre, andava materializzandosi. 
Avevamo prenotato due notti all'hotel Zenobia, vergognosamente ma magnificamente costruito tra le rovine dell'antica città, con vista sulla mitica strada colonnata. Si trattava di un albergo eretto in periodo coloniale, che conservava tutto il fascino dell'epoca, dall'insegna liberty, alle stanze, le cui finestre lasciavano passare l'aria fredda della notte nel deserto e la polvere, ma anche l'aria pura che si trova solo in un ambiente lontano da qualsiasi fonte di inquinamento. 
Arrivammo in taxi, provenienti dal Libano, dopo un viaggio lungo e faticoso, e l'hotel ci sembrò il massimo del comfort, anche se un po' tutto lasciava a desiderare. Lì, per lo meno, non si fermavano i bus carichi di turisti, dato che le stanze, distribuite su un solo piano, erano poche. Il silenzio, la pace e la vista delle rovine facevano di questo posto una meta irrinunciabile per chi, come noi, viaggiava in modo indipendente e conosceva gli alberghi per mezzo dell'infallibile passaparola.
Naturalmente ci precipitammo subito a percorrere l'agognata strada colonnata, che poi avremmo percorso più e più volte, nei due giorni di permanenza, benché fosse ormai tardi ed il sole stesse calando, ma, appunto per questo, godemmo di un tramonto indimenticabile, soli, tra le rovine. 
Tornati all'albergo, cenammo sulla terrazza circondata da siepi di gelsomino, ed ordinammo dei börek al formaggio, piatto tipico ed assai diffuso in tutto il Medio Oriente, di cui parlerò nell'apposita sezione dedicata a "Cibo e storia", dato che la ricetta è antichissima. Il cameriere, un ragazzo magrissimo, ci guardò esterrefatto quando ne chiedemmo tre a testa, "Tre?" disse, come se avessimo chiesto qualcosa di veramente esagerato. In realtà, digiuni dal mattino, e dopo una giornata impegnativa, il piatto fu appena sufficiente. Si beveva tè, in quanto non venivano servite bevande alcoliche, ma ormai, dopo diversi giorni nel paese ed in Libano, ci eravamo abituati e, dopo alcuni tentativi fallimentari di sostituire la birra con una strana bevanda analcolica, chiamata birra, ma addizionata di succo di lampone, e dopo aver provato anche il succo gassato di kiwi, avevamo optato per il tradizionale tè speziato, decisamente migliore. 
Nel frattempo il cielo era diventato scuro ed era apparsa una quantità indicibile di stelle. L'aria era profumata dall'odore dolce dei datteri, appena colti nella vicina oasi, messi ad essiccare e venduti dale numerose bancarelle subito fuori dal sito archeologico. Rimanemmo ancora a lungo a chiacchierare su quella terrazza, della quale conserviamo un ricordo indelebile, come di tutto il nostro viaggio in un paese meraviglioso, in un lontano autunno sereno. 

George Orwell. Omaggio alla Catalogna

George Orwell

"Se non siete interessati alle controversie politiche e alla folla di partiti e sotto-partiti dai nomi che si confondono tra loro (un po' come i nomi dei generali in una guerra cinese), saltate pure questa parte. Dover entrare nei dettagli delle polemiche interpartitiche è una cosa orribile. è come doversi tuffare in una fogna. Però è necessario, per quanto possibile, tentare di ristabilire la verità. Questa squallida rissa in una città lontana è più importante di quanto possa apparire a prima vista."

(da George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Milano, Mondadori, 1993, p. 214)

Il brano si riferisce alla città di Barcellona


George Orwell, giunto a Barcellona nel 1936 per scrivere degli articoli sulla guerra civile spagnola, iniziata da pochi mesi, si arruolò ben presto tra i repubblicani. Dal fronte scrisse dei resoconti appassionati e di prima mano che vennero poi raccolti in questo straordinario libro. Ferito gravemente a Huesca riuscì a riparare in Francia. Orwell, attento osservatore, narra qui la storia della guerra civile e di una rivoluzione che, partita dal popolo, fu poi tradita dalla politica, ed in particolare da coloro che invece avrebbero dovuto sostenerla. La disillusione derivata da questa esperienza, la disgregazione delle forze di sinistra, tradite dalle direttive provenienti da Mosca, saranno però destinate a dare l'avvio ad una serie di lavori in cui l'autore metterà in evidenza, in ogni modo, la tragedia dei totalitarismi, fino ad approdare all'indimenticabile 1984, metafora perfetta e crudele, della negatività e della pericolosità del partito unico.


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venerdì 23 marzo 2018

Lev Tolstoj. Il pranzo di Oblònskij (Anna Karenina)

M.V. Nesterov. Ritratto di Tolstoj (1907)

Nelle prime pagine del romanzo di Lev Tolstoj, Anna Karenina, il dissoluto fratello di lei, Oblònskij, che risiede a Mosca, dove Anna arriva per convincere la cognata Dolly a non lasciare il marito e dove si innamorerà di Vronskij, pranza con il possidente terriero Lévin, innamorato di Kitty, la sorella di Dolly. Sebbene Tolstoj, negli ultimi venticinque anni di vita, fosse diventato vegetariano, descrive qui un pasto (disapprovato, in fondo, da Lévin, dalle abitudini semplici, che “mangiava anche le ostriche, benché il pane bianco col formaggio gli piacesse di più”) servito in uno dei migliori locali della città.
Ma Stiva (Stepàn Arkàdjevič Oblonskij) sostiene che mangiare è uno dei piaceri della vita ed ordina al cameriere tartaro:

...dacci due, o son poche, tre decine d'ostriche; una minestra di radici...
-Prentanjèr, - riprese il tartaro. Ma si vede che Stepàn Arkàdjevič non voleva dargli la soddisfazione di chiamare i piatti in francese.
-Con le radici, sai? Poi rombo con una salsa spessa, poi...del rosbiffe; ma guarda che sia buono. E dei capponi, eh?, e delle conserve, via.
Il tartaro ricordandosi dell'abitudine di Stepàn Arkàdjevič di non chiamare mai i piatti secondo la lista francese, non ripeté a mano a mano, ma si concesse poi la soddisfazione di ripetere l'ordinazione secondo la lista: (…) e subito come avesse le molle, messa giù una lista rilegata e acchiappatane un'altra, la lista dei vini, la tese a Stepàn Arkàdjevič.
-E cosa berremo?
-Io, quello che vuoi, soltanto non molto....champagne, - disse Lévin.
-Come? Fin da principio? Del resto, magari. Ti piace quello col sigillo bianco?
-Cašè blan, - riprese il tartaro.
-Su, allora servine di questa marca, con le ostriche, e poi si vedrà.
-Sissignore. Di vino da tavola quale ordinate?
-Servi del nuits. No, allora è meglio il classico chablis.
-Sissignore. Ordinate il vostro formaggio?
-Ma sì, parmigiano. Oppure a te ne piace un altro?
-No, per me è lo stesso, - disse Lévin, che non poteva trattenere un sorriso.”


(da Lev Tolstoj, Anna Karenina, Torino, Einaudi, 1997, traduzione di Leone Ginzburg (1945), p. 42-3).

A.M. Kolesov. Ritratto di giovane donna
 - la cosiddetta Anna Karenina - (1885)

Il brano, qui presentato nella straordinaria traduzione di Leone Ginzburg, è interessante tanto perché rivela un aspetto delle abitudini alimentari della borghesia moscovita, che metteva sulla propria tavola, vini  francesi e persino il formaggio parmigiano, prelibatezze certamente concesse a pochi, tanto perché mette in luce la diversità dei due. Da un lato Oblònskij, che tradisce Dolly e spende troppo e male, dilapidando il suo patrimonio, dall'altro Lévin, che nelle varie riscritture del romanzo aveva preso sempre più spazio, e nella figura del quale si intravvede lo stesso autore, amante delle cose semplici e della vita in campagna. Due mondi destinati a scontrarsi, tra i quali si dibatte il personaggio di Anna, che non saprà e non potrà trovare posto in nessuno dei due, combattuta ed infine vinta da entrambi.


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giovedì 22 marzo 2018

Antoon van Dyck. Ritratto di Elena Cattaneo

Il 22 marzo 1599 nasceva ad Anversa 
Antoon van Dyck
Pittore

Antoon van Dyck. Ritratto di Elena Cattaneo (1623)

Antoon van Dyck fu mandato in Italia dal suo maestro, Pieter Paul Rubens, per affinare la sua tecnica pittorica. Si fermò in diverse città, tra cui Roma e Firenze, ma prima di tutto si recò a Genova, dove ritrasse gli esponenti di alcune famiglie del patriziato. Benché ancora piuttosto giovane, Antoon aveva però una buona esperienza alle spalle ed i suoi lavori furono assai apprezzati. 
Nel ritrarre Elena Grimaldi Cattaneo, severa nel suo abito nero del lutto, ravvivato solo dai polsini rossi e dalla gorgiera importante, il pittore fa risaltare la figura grazie all'ombrello rosso, sostenuto da un giovane servitore. La marchesa è in piedi accanto ad una balaustra mentre alle sue spalle si notano alcune colonne con capitelli corinzi. Un'ulteriore quinta è rappresentata dal paesaggio verdeggiante delle colline liguri, sullo sfondo. Di grande impatto anche il cielo nuvoloso, contro il quale stacca il rosso dell'ombrello. Il ritratto, nel suo insieme, restituisce un'immagine di sobrietà e di essenzialità. 




mercoledì 21 marzo 2018

Fotografare l'architettura. Garachico (isola di Tenerife)

Castello di San Miguel (1575-77). Particolare

Garachico (foto Daniela Durissini)

Pensieri d'autore. Alda Merini

Alda Merini (21 marzo 1931-1 novembre 2009)


Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe, 
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera


(da Alda Merini, Sono nata il ventuno a primavera. Diario e nuove poesie, a cura di Piero Manni, San Cesario di Lecce, Piero Manni, 2005)



Alda Merini


"Ella era di media statura e di straordinaria
bellezza, le sue movenze erano quelle di una
danzatrice al cospetto del sole.
La sua verginità era così materna che tutti i
figli del mondo avrebbero voluto confluire nelle
sue braccia.
Era aulente come una preghiera, provvida come
una matrona, era silenzio, preghiera e voce.
Ed era così casta e ombra, ed era così ombra
e luce, che su di lei si alternavano tutti gli 
equinozi di primavera"


(da Alda Merini, Magnificat. Un incontro con Maria, Milano, Frassinelli, 2002)



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Alda Merini, Magnificat. Un incontro con Maria (Frassinelli)



Pensieri d'autore. Pablo Neruda su Rafael Alberti

Tenerife. Garachico. Parque de la puerta de Tierra.
Rincón de los Poetas
Busto di Rafael Alberti
(foto Daniela Durissini)

"La poesia è sempre un atto di pace. Il poeta nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina. 
Gli incendiari, i guerrieri, i lupi, cercano il poeta per bruciarlo, per ucciderlo, per sbranarlo. Uno spadaccino lasciò Puškin ferito a morte fra gli alberi di un parco desolato. I cavalli di polvere galopparono impazziti sul corpo senza vita di Petöfi. Byron morì in Grecia lottando contro la guerra. I fascisti spagnoli iniziarono la guerra in Spagna assassinando il suo maggior poeta. 
Rafael Alberti è come un sopravvissuto. C'erano mille morti pronte per lui. Una anche a Granada. Un'altra morte l'aspettava a Badajoz. A Siviglia piena di sole o nella sua piccola patria, Cadice e Puerto Santa Maria; lo cercavano per pugnalarlo, per impiccarlo, per uccidere in lui ancora una volta la poesia.
Ma la poesia non è morta. Ha le sette vite del gatto. La perseguitano, la trascinano per la strada, le sputano addosso e la dileggiano, la stringono per soffocarla, l'esiliano, l'incarcerano, le sparano quattro colpi, e la poesia esce da tutti questi episodi con la faccia lavata e un sorriso bianco come il riso."


(da Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto, Torino, Einaudi, 1998, p. 179)


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martedì 20 marzo 2018

Pensieri d'autore. Ibsen. Casa di bambola

Il 20 marzo del 1828 nasceva a Skien (Norvegia)
Henrik Ibsen
Drammaturgo, poeta e regista teatrale


Alla Nazimova nel film Doll's house (1922)
"Ma tu non pensi e non parli come l'uomo di cui possa essere la compagna. Svanita la minaccia, placata l'angoscia per la tua sorte, non per la mia, hai dimenticato tutto. Ed io sono tornata ad essere per te la lodoletta, la bambola da portare in braccio. Forse da portare in braccio con più attenzione perché t'eri accorto che sono più fragile di quanto pensassi. Ascolta, Torvald; ho capito in quell'attimo di essere vissuta per otto anni con un estraneo. Un estraneo che mi ha fatto fare tre figli... Vorrei stritolarmi! Farmi a pezzi! Non riesco a sopportarne nemmeno il pensiero!"

(da Henrik Ibsen, Casa di bambola, Milano, Mondadori, 1991, traduzione di Ervino Pocar, Atto III, Nora)


Rina Morelli, Lamberto Picasso
Registrazione di Casa di bambola
Studi EIAR (1942)



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lunedì 19 marzo 2018

Pensieri d'autore. Il pranzo di Gogol


Georg Flegel. Natura morta con dolciumi
Nikolaj Gogol, nel suo romanzo Le anime morte, ritorna, più di una volta, sulla tavola imbandita, e descrive con dovizia di particolari tanto i cibi che vi vengono serviti quanto le bevande, che prevalgono decisamente nel brano che segue. Lui stesso buongustaio, pur soffrendo di problemi allo stomaco, ci riporta ai pranzi tipici della Russia del suo tempo, o meglio, di un certo ambiente sociale di allora, rivelandoci i segreti della cucina e delle cantine, che accoglievano vini raffinati, talvolta, come viene descritto qui, adulterati dagli stessi commercianti, che si approfittavano così di coloro, e non erano i più, che potevano permettersi la spesa elevata di una buona bottiglia di vino francese. 


Nikolaj Gogol
Dopo aver fatto uno spuntino con il filetto di storione, sedettero a tavola che eran quasi le cinque. Il pranzo, come si vede, non rappresentava per Nozdrëv la cosa più importante della vita; le portate non erano indimenticabili: qualcosa era troppo cotto, qualcosa non era cotto. Si vedeva che il cuoco era guidato più che altro da una qualche forma di ispirazione e prendeva la prima cosa che gli capitava sotto mano: c'era del pepe, spargeva del pepe, capitava del cavolo, lui buttava dentro il cavolo, metteva giù del latte, del prosciutto, delle noci, in una parola, ficca dentro come viene, basta che sia caldo, un qualche sapore poi vedrai che viene fuori. Però Nozdrëv faceva attenzione al vino: non avevano ancora servito la zuppa, che aveva già versato agli ospiti un grande bicchiere di porto e un altro di haute sauterne, dal momento che nei capoluoghi di governatorato e nelle città vicine non si trova il sauterne e basta. Poi Nozdrëv ordino di portare una bottiglia di madera che di migliore non ne beveva il feldmaresciallo in persona. Il madera, veramente, bruciava perfino in bocca, dal momento che i mercanti, conoscendo il gusto dei possidenti, amanti del buon madera, ci aggiungevano senza misericordia del rum, e delle volte ci versavano dentro anche la vodka imperiale, confidando negli stomaci russi che sopportano tutto. Poi Nozdrëv ordinò ancora di portare un'altra bottiglia speciale, la quale, parole sue, era sia borgognon che champagnon allo stesso tempo. Ne versò con molta diligenza nei due bicchieri, a destra e a sinistra, al cognato e a Čičikov; Čičikov notò, però, come di sfuggita, che a se stesso non se n'era versato tanto. Questo lo fece stare di guardia, e appena Nozdrëv in qualche modo si perse dietro un discorso o versò del vino al cognato, rovesciò subito il suo bicchiere nel piatto. Dopo poco tempo venne portato in tavola un liquore di erbe selvatiche che aveva, secondo Nozdrëv, proprio il sapore della panna, ma nel quale, meraviglia, si sentiva la vodka non raffinata con tutta la sua forza. Poi bevvero un qualche balsamo, che aveva un nome tale che era difficile anche ricordarselo, e lo stesso padrone di casa la volta dopo chiamò con un altro nome.”


(da Nikolaj Gogol, Le anime morte, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 77)

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Pensieri d'autore. Luis Sepúlveda. Marzo in Patagonia

Attraversando lo Stretto di Magellano in un giorno tempestoso (foto Daniela Durissini)

"A metà marzo le giornate si accorciano e dall'Atlantico arrivano potenti brezze attraverso lo Stretto di Magellano.
Gli abitanti di Porvenir controllano le loro provviste di legna e osservano malinconici il volo delle ottarde, che passano dalla Terra del Fuoco alla Patagonia, per poi volare ancora più a nord. Pensavo di proseguire il mio viaggio fino a Ushuaia, ma mi informano che le ultime piogge hanno interrotto la strada in vari punti, e che non la ripareranno fino alla prossima primavera. Non importa. Ho imparato che in questa regione è assurdo avere programmi fissi. E poi si sta benissimo a El Austral, un bar di gente di mare dove preparano il miglior stufato d'agnello che abbia mai mangiato. Agnello di Magellano aromatizzato con i chiodi di garofano nascosti nei cuori delle cipolle che fanno da contorno."


(da Luis Sepúlveda, Patagonia Express. Appunti dal sud del mondo, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 43)


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sabato 17 marzo 2018

Rudolf Nurejev e la danza


Il 17 marzo 1938 nasceva su un treno della Transiberiana
Rudolf Nurejev
Danzatore e coreografo

Rudolf  Nurejev (1961)
“L'amicizia, come l'amore, richiede quasi altrettanta arte di una figura di danza ben riuscita. Ci vuole molto slancio e molto controllo, molti scambi di parole e moltissimi silenzi. Soprattutto molto rispetto.” (R. Nurejev)

Degas. Tre danzatrici (1900)
“La danza è tutta la mia vita. Esiste in me una predestinazione, uno spirito che non tutti hanno. Devo portare fino in fondo questo destino: intrapresa questa via non si può più tornare indietro. E' la mia condanna, forse, ma anche la mia felicità. Se mi chiedessero quando smetterò di danzare, risponderei “quando finirò di vivere”.” (R. Nurejev)


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venerdì 16 marzo 2018

Fotografare l'architettura. Ajdovscina (Slovenia)

Resti di una torre e delle mura romane

Ajdovscina (foto Daniela Durissini)

Pensieri d'autore. Tiziano Terzani. Le isole Curili


Paramushir (Isole Curili)

"Se il mondo avesse un principio, la fine non potrebbe essere che qui, dove il fumo dei vulcani si mischia alla nebbia del mare e la natura fa rabbrividire con le sue indomite, terrificanti forze. Dal finestrino del vecchio Antonov a elica, che traballa inquietante in un cielo lattiginoso, la terra che finalmente mi appare sotto l'ala è come la soglia dell'aldilà. Lungo tutta la costa impervia e nera si abbattono onde spumeggianti. Ai piedi d'un improvviso vulcano vedo due laghi: in uno le acque sono bianche e gelate, nell'altro sono mostose e ribollono come in un immenso calderone.
Le isole Curili sono il possedimento più orientale dell'impero sovietico e ancora oggi uno degli angoli più sconosciuti della terra. Pochissimi stranieri sono riusciti finora ad avventurarsi fin qui e i cittadini sovietici stessi hanno bisogno di uno speciale permesso per approdarci. A vederle dall'alto, brulle e minacciose, c'è da chiedersi perché mai qualcuno ci sia voluto venire a stare." (Južno-Kurlisk, marzo 1991)


(da Tiziano Terzani, in Asia, Milano, Longanesi, 2000, p. 301)



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giovedì 15 marzo 2018

Fotografare l'architettura. Cividale

Duomo

Cividale (foto Daniela Durissini)

Turchia. Il teatro delle ombre


Marionetta del teatro Karagöz (foto Daniela Durissini)

Uno degli spettacoli più antichi e tradizionali del teatro turco è senza dubbio quello delle ombre che, un tempo, costituiva la forma di intrattenimento più popolare nel paese. 
Le marionette realizzate in pelle di cammello, lavorata in modo da risultare semi trasparente, sono dotate di snodi, per poter conferire loro, mediante delle bacchette, dei semplici movimenti, e sono dipinte con una pittura colorata e traslucida. Durante gli spettacoli venivano poste dietro ad uno schermo chiaro retroilluminato con una lampada ad olio, in modo che il pubblico vedesse soltanto le ombre colorate che davano vita al racconto. 
I personaggi principali sono Karagöz, al quale spesso si riferisce lo stesso tipo di teatro (teatro Karagöz), e Hacivat. Il primo è un popolano illetterato ma sagace, il secondo un intellettuale, che soccombe sempre all'arguzia di Karagöz, le cui azioni, in questo caso fallimentari, sono sempre tese a migliorare la propria situazione sociale, ma soprattutto economica, ed infine a suscitare l'ilarità e la compartecipazione del pubblico. 
Vi sono poi alcuni personaggi secondari che ricorrono costantemente nelle rappresentazioni e che servono a costruire le diverse storie, come l'ubriacone, lo sciocco, il fumatore d'oppio.
Tutte le rappresentazioni seguono uno schema preciso e sono divise in quattro parti, una delle quali riservata all'introduzione, recitata da Hacivat. 
L'animatore, assistito generalmente da un aiutante che ha il compito di passargli i personaggi, muove tutte le marionette e dà loro la voce. Un'arte antichissima, tramandata da generazione in generazione da tempo immemorabile, infatti sembra che il teatro d'ombre, molto popolare già ai tempi dell'impero ottomano, risalga al regno di Bayezid I, a cavallo tra il XIV ed il XV secolo.
Ancor oggi viene rappresentato, soprattutto nel tentativo di perpetuare la tradizione, ed ancora si possono trovare, soprattutto nel bazar di Bursa, dove sembra abbia avuto origine, le coloratissime marionette  in pelle di cammello che artigiani sapienti confezionano con cura, scegliendo la pelle adatta ad essere lavorata e tirata fino a diventare trasparente, ed i colori corretti, e conferendo ai personaggi una fisionomia capace di renderli immediatamente riconoscibili.