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martedì 22 dicembre 2020

Archeologia. Pukará de Quitor (Desero di Atacama, Cile)

Pukará de Quitor (foto Daniela Durissini)


Il popolo atacameño è stato presente nel Nord del Cile fin dal secolo VI. Le piccole e prospere comunità si dedicavano alla coltivazione del mais, della patata e della quinoa, all'allevamento ed alla fabbricazione di pregevoli oggetti in ceramica, in rame, ed alla produzione di tessuti. Ogni comunità si sviluppò in modo autonomo, pur non mancando i contatti e gli scambi tra le stesse, che elaborarono una lingua comune, il kunza. Nel XV secolo la regione fu conquistata dagli Inca, il potente popolo che si tava espandendo verso Sud (arrivarono fino all'attuale città di Santiago). Il Pukará de Quitor, sito a 3 chilometri dalla città di San Pedro d'Atacama, sopra il rio San Pedro, o Rio Grande, è una delle fortezze che, a partire dal XII secolo, vennero edificate a protezione delle comunità atacameñe. Questa, costruita a terrazze circolari, provvista di muraglioni di sostegno realizzati con la pietra rossa locale, era suddivisa all'interno in diverse zone destinate ad abitazioni, ricovero di animali, magazzini e botteghe, il tutto unito da stretti vicoli e passaggi labirintici. Gli scavi archeologici hanno messo in luce anche alcuni resti di travi e muri di paglia e fango. Nel 1540, come ricorda una targa sulla cima del monte che sovrasta la fortezza, si ebbe uno scontro durissimo tra le genti locali ed i conquistatori spagnoli, che ebbero la meglio e massacrarono 25 persone. Monumento nazionale dal 1982.

►(click) Per saperne di più: Scheda dal sito dei Monumenti storici del Governo del Cile

►(click) Scheda sull'architettura preispanica nel Nord cileno


martedì 15 dicembre 2020

Letture. Di Kafka e del potere totalitario

Franz Kafka. Das Schloß. ed. 1926

Lo scrittore praghese Franz Kafka scrisse Das Schloß (Il castello) nel 1922, non molto tempo prima di morire (1924). Il suo ultimo romanzo infatti, fu pubblicato postumo, nel 1926, curato dall'amico Max Brod. La vicenda vede il protagonista, indicato con la sola iniziale del nome, K., che non può che rimandare all'autore, confrontarsi con un potere anche visivamente lontano, ma estremamente invasivo e condizionante. Il costante confronto con questa entità superiore ed inaccessibile farà di K. un essere sfruttato, alienato e frustrato la cui fine, intuibile ma non descritta nel libro, incompiuto, era stata concepita da Kafka come l'ennesima beffa ai danni del povero agrimensore, destinato a cedere, infine, per esaurimento. 
Lo scrittore e filosofo spagnolo Pedro Cuartango, parlando di questo libro, offre un'interpretazione della società attuale che si rifà a quanto, quasi cent'anni fa, Kafka aveva già intravisto, con estrema lucidità. Ne ho tradotto un breve passaggio:

"Il potere, secondo lo scrittore praghese, è indefinibile per la sua complessità ed assomiglia ad una forza che ci costringe ad assumere determinati atteggiamenti, molti dei quali inconsci. In un certo senso, il potere è come una realtà virtuale che nessuno sa da dove viene ma che condiziona tutti i nostri atti. In questa natura diffusa ed intangibile risiede il suo pericolo maggiore. Ne consegue che risulta assai diffcile controllare i suoi eccessi. La minaccia totalitaria nei paesi sviluppati deriva precisamente da questo carattere astratto del potere che impregna come pioggia fine ed impone ciò che è politicamente corretto o desiderabile come se fosse la conseguenza di una volontà libera e consensuale dei cittadini. Il tutto ci viene imposto in nome di una entelechia innominabile che nasconde un potere che risponde solo a sé stesso, ovvero al nulla".
(trad. Daniela Durissini)

El poder, según el escritor de Praga, es indefinible por su complejidad y se asemeja a una fuerza que nos compele a asumir determinadas actitudes, muchas de ellas inconscientes. En cierta forma, el poder es como una realidad virtual que nadie sabe de dónde procede pero que condiciona todos nuestros actos. En esa naturaleza difusa e intangible reside su mayor peligro. De ahí que resulte mucho más difícil controlar sus excesos. La amenaza totalitaria en los países desarrollados viene precisamente de ese carácter abstracto del poder que empapa como lluvia fina e impone lo políticamente correcto o deseable como si fuera la consecuencia de una voluntad libre y consensuada de los ciudadanos. El Todo se nos impone en nombre de una entelequia innombrable que oculta un poder que solo responde ante sí mismo, o sea, ante la nada.
(da Pedro Cuartango, Elogio de la quietud)


venerdì 11 dicembre 2020

Arti e architetture. Jean Renoir. Partie de campagne (La scampagnata)



Il film di Jean Renoir, Partie de campagne, un corto di poco più di mezz'ora, tratto dall'omonimo racconto di Guy de Maupassant, fu girato nel 1936. Il regista, figlio del famoso pittore impressionista, Pierre Auguste Renoir, si ispirò, per molte delle eccezionali inquadrature, ai lavori del padre, un motivo in più per non perdere l'occasione di vedere quest'opera davvero straordinaria, che uscì appena nel 1946, completata in assenza del regista, ormai esiliato in America, come avverte una breve nota all'inizio della pellicola. 

Pierre Auguste Renoir. La balançoire (1876)
Parigi Museo d'Orsay

(La scena di Henriette Dufour sull'altalena è chiaramente ispirata a questo quadro del padre del regista)

La lavorazione, quasi tutta in esterni, prese tre settimane e fu ostacolata dal maltempo, che non era previsto nel racconto originale, ed causa del quale si dovette cambiare la sceneggiatura. Tuttavia la cosa non turbò più di tanto Renoir che, nella tempesta, vide un'accentuazione della drammaticità della situazione. Del resto, le riprese del vento e della pioggia sul fiume costituiscono uno dei momenti migliori dell'intero film. Oltre agli attori protagonisti, alcuni dei quali avevano già lavorato con il regista, questi prese come comparse la propria compagna, nel ruolo della cameriera, ed alcuni dei suoi migliori amici, nel ruolo dei seminaristi. Tra questi il fotografo Heri Cartier Bresson, il regista Jacques Becker e lo scrittore Georges Bataille. Alla realizzazione partecipò anche il trentenne Luchino Visconti. Renoir stesso recitò nel ruolo del padrone dell'osteria accanto al fiume, dove si svolgono i fatti.
Nel 1994 la Cinémathèque française ha ristampato quattro ore del girato in suo possesso, ceduto a suo tempo dal produttore Braunberger, con il quale il regista Alain Fleischer ha montato un documentario dal titolo Tournage à la campagne.


martedì 8 dicembre 2020

Culture. L'antico pellegrinaggio a San Giacomo di Galizia

Santa Croce. Canonica (foto Daniela Durissini)

Da un mio vecchio lavoro di catalogazione effettuato sugli archivi medievali triestini, traggo alcune notizie sul pellegrinaggio effettuato a San Giacomo di Galizia (San Giacomo di Compostela). Nei testamenti del XV secolo si nota come non fosse affatto rara la decisione di lasciare una parte del patrimonio da destinare ad una o più persone incaricate di effettuare un pellegrinaggio, per la salvezza dell'anima del testatore, che talvolta, allo stesso scopo, lasciava anche ingenti somme per far dire numerose sequenze delle caratteristiche 30 messe gregoriane. Il santuario di San Giacomo di Galizia però era una meta troppo lontana per inviarvi qualcuno, avendo una ragionevole certezza che vi arrivasse e compisse così il volere del testatore, e pertanto generalmente si preferiva indicare mete più vicine e più frequentate da coloro che partivano dall'estremo nordest della penisola. 
La meta galiziana era ritenuta così difficile da raggiungere, il cammino così irto di pericoli ed il viaggio tanto lungo, che chi vi si recava faceva a sua volta testamento, disponendo dei propri beni prima di partire. Nel corso del XV secolo si trovano soltanto sei testamenti di persone in partenza per San Giacomo, e non sappiamo se tra queste ci fosse qualcuno incaricato del pellegrinaggio da altri, però troviamo anche il testamento di ser Concio, bavarese, di passaggio a Trieste ed ammalatosi, che incarica i suoi eredi di mandare una persona a San Giacomo ed una a Roma, corrispondendo ben 37 ducati, una cifra molto consistente. Anche Antonio, barbiere di Cividale, ammalato, detta il testamento, una prima volta nel 1475, ed una seconda nel 1486. La prima stesura prevede l'invio di una persona a San Giacomo, una a Sant'Antonio di Vienna (Padova), due alla Beata Vergine di Loreto, ed indica l'ospedale di San Giusto quale erede universale, mentre la seconda stesura, essendo trascorsi undici anni, mantiene solo il pellegrinaggio a San Giacomo, mentre divide i beni tra Driota, convivente del testatore, e l'ospedale di San Giusto.
Su uno dei muri esterni della canonica di Santa Croce, già scuola parrocchiale, che presenta alcuni interessanti resti dell'apparato decorativo originario, databile tra il XV ed il XVII secolo, vi è scolpito il bastone del pellegrino accanto alla conchiglia di San Giacomo, a ricordare che, raggiunto l'altipiano, proprio lì, dove si poteva dare un ultimo sguardo alla città, iniziava il lungo cammino che, in molti mesi, avrebbe condotto il pellegrino fin sulle sponde dell'oceano atlantico.

►(click) A questo indirizzo è consultabile on line la catalogazione da me effettuata sul fondo Vicedomini conservato presso l'Archivio Diplomatico della Biblioteca Civica A. Hortis di Trieste



venerdì 4 dicembre 2020

Fotografare l'arte. René Magritte. Il teatro della natura

 

René Magritte. Lo spettacolo della natura (1940)
Monaco di Baviera. Pinakothek der Moderne
(foto Daniela Durissini)

René Magritte (Lessines, Belgio 1898 - Bruxelles, Belgio 1967) , dopo un iniziale periodo futurista, di cui rimangono pochi e misconosciuti lavori, si accostò al surrealismo grazie alla scoperta del lavoro di De Chirico. La natura è sempre partecipe dei suoi lavori poiché, come lui stesso affermava"...ci offre lo stato di sogno che procura al nostro corpo e al nostro spirito la libertà di cui hanno assoluto bisogno". Questo dipinto è conservato presso la Pinacoteca d'arte Moderna di Monaco di Baviera. 


martedì 1 dicembre 2020

Culture. La società vulnerabile

Max Beckmann. Grande natura morta con telescopio (1927)
Monaco di Baviera. Pinakothek der Moderne 
(foto Daniela Durissini)

(Max Beckmann, per le sue osservazioni critiche sul decadimento della società, dovette lasciare la Germania. Morì in esilio a New York)

La sensazione di sicurezza rispetto al futuro che esisteva dieci anni fa è svanita e si ha l'impressione di essere sottomessi ad un cambio vertiginoso che ci impedisce di programmare la nostra vita. Quasi tutto è caduco e fragile: le relazioni personali, il lavoro, la politica, l'estetica e pure il sesso. Le ultime scoperte delle fisica contribuiscono ad accentuare il concetto della volatilità, ponendo in rilievo il fatto che la materia è formata da particelle che interagiscono, in continuo movimento, la cui traiettoria è impossibile da prevedere. Dato che l'essere umano è stato educato a vivere nell'ambito della certezza e della prevedibilità, questa volatilità ci produce una spiacevole sensazione di malessere all'acutizzarsi della percezione della nostra vulnerabilità. Ma non c'è altra alternativa al vivere con questa realità. La veloce successione degli avvenimenti ha in sé un altro problema: il fatto che ci fa perdere la prospettiva e ci impedisce di distinguere tra il bene ed il male, l'importante ed il banale. L'unica cosa che conta è un presente precario che ci trascina come una poderosa corrente nel mare. Non possiamo resistere alla forza di alcuni cambiamenti che non controlliamo e di fronte ai quali mancano di risposte anche le istituzioni ed i partiti. Ciò spiega la nascita di organizzazioni come Podemos, il cui successo sta nell'offrire ricette semplici a fronte di situazioni estremamente complicate. La volatilità ha smesso di essere una circostanza esterna alle cose per convertirsi nell'essenza delle stesse. Heidegger lo comprese molto bene quando intuì le conseguenze del progredire della tecnica e la depersonalizzazione del mondo contemporaneo. Per dirlo in altra maniera, la volatilità ci impedisce di essere e ci spinge ad esistere o, ancor peggio, a sopravvivere in un ambiente che cambia di continuo al quale siamo obbligati ad adattarci. E' puro darwinismo. Difficile sapere dove ci porta questa tendenza delle società avanzate che ci fa tornare alla vulnerabilità dell'uomo del Paleolitico.
 
(da Pedro Cuartango, Elogio de la quietud; traduzione: Daniela Durissini)


La sensación de seguridad respecto al futuro que existía hace diez años se ha desvanecido y da la impresión de que estamos sometidos a un cambio vertiginoso que nos impide hacer planes sobre nuestra vida. Casi todo es caduco y frágil: las relaciones personales, el trabajo, la política, la estética e incluso el sexo. Los últimos avances de la física contribuyen a acentuar el concepto de volatilidad al poner de relieve que la materia está formada por partículas que interactúan en continuo movimiento cuya trayectoria es imposible de predecir. Dado que el ser humano ha sido educado para vivir en el ámbito de la certeza y la previsibilidad, esta volatilidad nos produce una incómoda sensación de malestar al agudizar la percepción de la propia vulnerabilidad. Pero no hay otra alternativa que vivir con esta realidad. La veloz sucesión de los acontecimientos tiene otro problema: que nos hace perder la perspectiva y nos impide distinguir entre lo bueno y lo malo, lo valioso y lo banal. Lo único que pesa es un presente precario que nos arrastra como una poderosa corriente en el mar. No podemos resistir la fuerza de unos cambios que no controlamos y frente a los que también carecen de respuesta las instituciones y los partidos. Eso explica el nacimiento de organizaciones como Podemos, cuyo éxito reside en ofrecer recetas simplistas frente a situaciones extremadamente complicadas. La volatilidad ha dejado de ser una circunstancia externa a las cosas para convertirse en su propia esencia. Eso lo vio muy bien Heidegger cuando intuyó las consecuencias del avance de la técnica y la despersonalización del mundo contemporáneo. Para decirlo de otra forma, la volatilidad nos impide ser y nos impulsa a existir o, peor todavía, a sobrevivir en un entorno siempre cambiante al que nos tenemos que adaptar. Es darwinismo puro. Difícil saber adónde nos lleva esta tendencia de las sociedades avanzadas que nos retrotrae a la vulnerabilidad del hombre del Paleolítico.

da Pedro Cuartango, Elogio de la Quietud

Pedro Cuartango, giornalista spagnolo con una laurea in filosofia ed una in scienza dell'informazione, scrive questo bel libro in cui fa il punto sulla sua vita di ultra cinquantenne, che si porta appresso i ricordi di un passato probabilmente enfatizzato e le angosce del tempo presente, ricordando gli insegnamenti ricevuti alla facoltà di filosofia dell'università parigina di Vincennes, le passeggiate con Deleuze, i fugaci incontri con Sartre, e le sue letture. All'epoca in cui la frequentò l'università era una fucina di idee in cui, un insegnamento assolutamente libero, favoriva l'incontro tra studenti e professori, ed un apprendimento privo delle angosce di esami e pratiche burocratiche. Allora funzionò e, accanto a maestri insigni quali il già ricordato Deleuze e Châtelet, si formarono molti giovani intellettuali. Cuartango deve a questa formazione la capacità di guardare il presente con spirito critico, ricordando i suoi filosofi prediletti, che ricorrono spesso nei numerosi e brevi capitoli in cui è suddiviso il libro, che si legge con piacere e con una certa curiosità. Ho riportato qui sotto una parte di uno di questi capitoli con la traduzione, perché mi sembra che ben si adatti ai tempi che stiamo vivendo.




martedì 24 novembre 2020

Ambiente e territori. Castel Valdajer (Ligosullo/Carnia)

Castel Valdajer (foto Daniela Durissini)

In un'ampia radura prativa sopra il paese carnico di Ligosullo fu costruito, nel 1430, un castello. Il proprietario era tale Corrado IV von Kraig, comandante dei forti di Osoppo e Sutrio durante la guerra tra l'Austria e la Repubblica di Venezia, e questi lo lasciò in eredità al figlio Leonardo, come ricorda Natalino Sollero nel suo libro L'Incarojo tra storia e leggenda. Nella prima metà del XIX secolo il castello subì una radicale trasformazione e divenne residenza estiva del nuovo proprietario, Jacopo Nicolò Craigher, che lo volle in forme neogotiche, stile molto in uso nel periodo. La struttura viene descritta brevemente da Giovanni Marinelli nella sua Guida della Carnia, edita nel 1898 dalla Società Alpina Friulana, nella collana Guida del Friuli: 

Salita al Castello di Val d'Ajer (1342m.)

Il castello di Val d'Ajer di proprietà del sig. barone di Craighero, sorge a 1342m. NE. di Ligosullo, in una splendida e pittoresca posizione. Più che castello è una villa costruita con una certa immaginazione di forme castellane. Vista larghissima. Da Ligosullo un'ora di buon sentiero mulattiero.

La meridiana di Castel Valdajer (foto D. Durissini)

Questo alla fine dell'800, ma sul finire della prima guerra mondiale la struttura fu incendiata (1917) e fu ridotta ad un rudere. Lo storico e giurista Pier Silverio Leicht, che era stato direttore della Biblioteca Civica di Udine tra il 1900 ed il 1902 e che era parente dei Craighero, lo fece ricostruire nel dopoguerra. Da allora il castello ha cambiato mano alcune volte ed è stato adibito a struttura recettiva. 

Castel Valdajer (foto Daniela Durissini)


martedì 17 novembre 2020

Arti e architetture. La kylix di Exekias

Monaco di Baviera. Staatliche Antikensammlungen
Kylix di Exekias (foto Daniela Durissini)
La bellissima coppa realizzata da Exekias, artista ateniese famosissimo, che operò come vasaio e pittore nella seconda metà del VI secolo a.C., conservata presso lo Staatliche Antikensammlungen di Monaco di Baviera, racconta una storia che affascina. Il dio Dioniso, naviga tranquillo sulla sulla sua nave circondata dai delfini. L'albero è trasformato in una vite, le vele sono gonfiate da un vento favorevole, sulla poppa è rappresentata la testa di un cigno, sulla prua quella di un cinghiale. Sappiamo però che questa scena idilliaca segue il tentativo dei pirati di impadronirsi della nave e la conseguente trasformazione degli stessi nei delfini che nuotano felici intorno ad essa e simboleggia il ritorno della pace e dell'ordine nell'Attica, dove il dio è diretto, per rimediare alla situazione di caos che vi regna. L'episodio si ispira all'Inno a Dioniso, che fa parte degli Inni omerici, opere minori del grande poeta greco. 
Exekias rappresenta la storia con grande maestria, applicando sullo sfondo il rosso corallo che consente poi di dare grande rilievo alla scena, un suo metodo questo, innovativo ed efficace, che distinse i suoi lavori da quelli dei contemporanei per poi diffondersi tra gli artisti che crebbero presso la sua bottega e tra quelli che gli succedettero. L'opera è firmata. 
Gli studiosi ritengono che alcune delle, perlatro pochissime, opere pervenuteci, firmate dall'artista, siano state realizzate dal gruppo che lo affiancava e che si distingueva per la grande omogeneità del tratto, mentre il maestro avrebbe soltanto impostato il lavoro o avrebbe realizzato le parti più significative. 
Si deve ad Exekias anche l'invenzione di forme nuove come il cratere a calice e la coppa a occhioni, di cui questa è un esempio.

►(click) Per sapere di più sull'artista: Scheda Treccani "Exekias"


mercoledì 11 novembre 2020

Ambiente e territori. Il pozzo di Jamiano

Pozzo di Jamiano (foto Daniela Durissini)
Vicino a Jamiano, sul Carso Isontino, in località Bared, un progetto transfrontaliero Italia-Slovenia, ha permesso di valorizzare un manufatto molto interessante: una presa d'acqua avente origine da una riserva sotterranea ed utilizzata nella prima metà del XX secolo per diversi scopi. 

La vasca per lavare i panni
(foto Daniela Durissini)
Il pozzo di Jamiano, segnalato mediante un cartello indicatore nei pressi del sentiero N.3, che parte dal paese ed attraversa, in 16 ore di cammino, tutto il Carso interno, realizzato, sembra, nei primi anni del '900, consentiva di pompare l'acqua, utilizzata per gli usi domestici e convogliata anche in un lavatoio ed in una vasca esterna, destinata all'abbeveraggio del bestiame. Durante la prima guerra mondiale i soldati austriaci vi abbeveravano i cavalli.

La vasca esterna per il bestiame (foto Daniela Durissini)

martedì 10 novembre 2020

Culture. Tubinga. Osservatorio astronomico

Tubinga. Castello. Osservatorio astronomico. Schema (foto Daniela Durissini)

Tubinga, l'antica città universitaria della Germania meridionale, conserva, presso il castello, un osservatorio astronomico costruito nel 1752. L'università aveva una grande tradizione negli studi astronomici, iniziati fin dal 1452, con Johannes Stöffler, e proseguiti poi, nel corso dei secoli, contando su personaggi di grande prestigio come Johannes Kepler (1571-1630). Fu il matematico e fisico Georg Wolfgang Krafft a volere la costruzione dell'osservatorio, che fu realizzato nel 1752 nella torre nord-est del castello. Nel 1818 Guglielmo I commissionò la mappatura del regno al matematico ed astronomo, Johann Gottlieb Friedrich von Bohnenberger, professore presso l'università. Questi stabilì il punto di osservazione presso l'osservatorio, il che spiega il motivo per cui tutte le mappe del Württemberg sono state orientate da questo punto.

Tubinga. Osservatorio astronomico (foto Daniela Durissini)

mercoledì 4 novembre 2020

Arti e architetture. L'orologio astronomico di Strasburgo

Strasburgo. Cattedrale. Orologio (foto Daniela Durissini)

Nel 1838 il famoso orologiaio strasburghese Jean Baptiste Schwilgué ottenne l'incarico per il restauro del grande orologio costruito nel XVI secolo nella cattedrale della sua città. Il meccanismo, che sostituiva un orologio precedente, realizzato nel XIV secolo, era stato ideato da Conrad Dasypodius, i lavori per la sua realizzazione erano stati iniziati nella seconda metà del secolo, ed erano proseguiti per molto tempo. Tuttavia, poiché l'ingranaggio, assai complesso, in ferro battuto, avrebbe richiesto una manutenzione attenta e continua, ed i tempi travagliati che la regione trascorse tra i secoli XVI e XVIII non consentirono che questa venisse realizzata, l'orologio smise di funzionare. Consapevoli dell'eccezionalità dell'opera i strasburghesi ne reclamarono il restauro che venne affidato al miglior maestro orologiaio dell'epoca. Schwilgué studiò attentamente il meccanismo e vi si applicò con grande dedizione e capacità per un periodo di 4 anni, coinvolgendo maestri artigiani di grande bravura per il completamento e la salvaguardia dell'apparato decorativo rinascimentale, fino a rimettere in piena funzione gli igranaggi, ed a dare nuovo splendore all'insieme. 
La cassa dell'orologio è alta 18 metri ed accanto ad essa si nota una scala a chiocciola realizzata per poter accedere facilmente alla parte superiore e ad un quadrante esterno. 
Per la descrizione dettagliata dell'intero apparato e delle figure che lo animano rimando al sito dedicato all'orologio dalla città di Strasburgo: Cattedrale di Strasburgo: Orologio astronomico.

Strasburgo. Cattedrale
Orologio astronomico (foto Daniela Durissini)


martedì 3 novembre 2020

Ambiente e territori. La fienagione in Carnia e Friuli

Sappada. Fienagione. Foto in mostra su una casa del borgo vecchio

In un tempo non troppo lontano la fienagione, sugli impervi prati alpini della Carnia e del Friuli, era un'attività svolta in larga parte dalle donne. Questo accadeva non solo perché tutte le persone valide, al momento in cui l'erba maturava, dovevano contribuire a portarne ai fienili la maggior quantità possibile, da stoccare per l'inverno, ma anche perché, spesso, gli uomini andavano a lavorare lontano, oltre i monti, e rimanevano fuori per molti mesi. 
I vecchi ed i bambini rimanevano affidati alle cure delle donne che dovevano seguire la casa, badare agli animali, curare i coltivi e, appunto, attendere alla fienagione, mentre i ragazzi più giovani salivano alle malghe per il periodo del pascolo estivo. 
Oggi di questa attività, che non era del tutto esente da pericoli, considerando l'inclinazione, alle volte vicina alla verticalità, di alcuni prati, non rimane traccia e ben poche sono le immagini che ritraggono le donne al lavoro. Attualmente, i pendii più ripidi non vengono sfruttati e la fienagione viene effettuata con macchinari sofisticati che consentono di preparare anche le balle di fieno, mentre la raccolta manuale prevedeva il trasporto a valle con la gerla e la sistemazione sulle assi dei fienili per l'essicazione. Dove il terreno era meno ripido l'erba veniva fatta asciugare sullo stesso prato per poi essere portata a valle, mentre nei posti in cui il terreno era sufficientemente pianeggiante venivano realizzati i covoni e, sovente, l'erba veniva sistemata su appositi essiccatoi. 

mercoledì 28 ottobre 2020

Archeologia. Castellazzo di Doberdò

Il vallo del Castellazzo (foto Daniela Durissini)
Il Castellazzo di Doberdò è il castelliere meglio conservato tra quelli individuati sul territorio goriziano. Trovandosi su un'altura strategica dal punto di vista militare, fu molto danneggiato nel corso della prima guerra mondiale e, pertanto, sono risultati particolarmente preziosi gli studi effettuati in epoca precedente da Pietro Kandler e soprattutto da Carlo Marchesetti, che ne effettuò il rilievo quando la struttura era ancora sufficientemente integra. Oggi si possono ancora vedere alcuni tratti del poderoso vallo, largo poco più di 3 metri, in parte invaso dalla vegetazione. Dalla parte volta verso sud il muraglione è assente poiché la struttura usufruiva della difesa naturale offerta dalla ripida scarpata rocciosa che scende verso il lago di Doberdò. 

Scarpata verso il lago di Doberdò (foto Daniela Durissini)
Le numerose monete di epoca romana ritrovate sul posto dal Marchesetti fanno supporre una frequentazione duratura del castelliere (III, IV e V sec.), eccedente di parecchio, quindi, il periodo della sua fondazione ed espansione e dovuta alla felice posizione sul pianoro, al di sopra dello specchio lacustre. Recenti studi e ricerche hanno trovato, sul sito, testimonianze della presenza umana dall'Eneolitico al Medioevo. 

►(click) Archeocarta FVG

►(click)  Castellazzo di Doberdò U20 Regione autonoma FVG (MIBACT)


mercoledì 21 ottobre 2020

Archeologia. Aquileia. Le mura tardo antiche

Aquileia. Mura tardo antiche (foto Daniela Durissini)
Ad Aquileia, non lontano dalla basilica e nei pressi dei mercati sono state portate alla luce consistenti tracce delle mura difensive, costruite nella tarda età imperiale. Si tratta di due linee distinte: la prima, più antica e più interna, è databile al IV secolo, mentre la seconda, più recente e più esterna, è stata eretta in funzione di antemurale nel secolo successivo.  

Aquileia. Mura tardo antiche (foto D. Durissini)
La prima cinta, della quale nel fondo Pasqualis si vede solo una parte, circondava l'intera città e, in questo punto, correva sulle rive del fiume Natiso. Fu costruita in fretta e furono impiegati materiali provenienti dalla demolizione di alcuni edifici della città. Per questo motivo nell'ordito murario si riconoscono diversi elementi architettonici, anche finemente lavorati, accanto a pietre squadrate ed altri materiali, più grezzi, di riempimento. La larghezza di questo tratto di mura è di circa tre metri.

Aquileia. Mura tardo antiche interne
(foto D. Durissini)
La seconda cinta invece, più esterna, è meno spessa e fungeva da rinforzo a quella precedente. In essa fu impiegato il bellissimo architrave che oggi si trova lungo la passeggiata archeologica. 

Aquileia. Mura tardo antiche esterne 
(foto D.Durissini)

►(click) Ricostruzione in 3D dell'area dei mercati Fondazione Aquileia


martedì 20 ottobre 2020

Ambiente e territori. Gli stagni di Mikoli

Primo stagno di Mikoli (foto Daniela Durissini)

Tra le località di Doberdò del Lago e di Marcottini, sul Carso Isontino, si trova un gioiello nascosto, rappresentato dagli stagni di Mikoli. 
Queste riserve d'acqua si trovano in una dolina, poco distanti dal sentiero n. 72, protetti dalla vegetazione, in un ambiente solitario ed idilliaco. Costituiscono un utile approvvigionamento per i numerosi animali che popolano la zona ed un tempo servivano ai contadini per l'abbeveramento delle mandrie al pascolo e per l'irrigazione delle colture. Di entrambe queste attività si vede ancora traccia, quando si osservino i muretti carsici di divisione delle proprietà, le zone prative, le campagne oggi in gran parte abbandonate, soprattutto nei pressi dei paesi. 

Terzo stagno di Mikoli  (foto Daniela Durissini)

Gli stagni non sono alimentati da nessun corso d'acqua ma soltanto dalle precipitazioni meteoriche, che non defluiscono grazie alla terra rossa, tipica della zona e particolarmente spessa sul fondo delle doline, che ne ricopre il bacino. Due di essi sono interamente naturali, mentre il terzo e più distanziato, che si raggiunge lungo un sentiero nella fitta boscaglia, è stato rafforzato mediante un muro a secco di contenimento del terreno circostante, in pendenza.
Oggi costituiscono anche un habitat prezioso per rane, rospi, tritoni e per alcuni tipi di insetti. 
Sono segnalati mediante un cartello bilingue posto sul sentiero. 

mercoledì 14 ottobre 2020

Arti e architetture. Friburgo. Quando il tempo è "prezioso"

Friburgo. Torre campanaria della cattedrale. Orologio (foto Daniela Durissini)

È il 1851 quando il celebre orologiaio strasburghese Jean Baptiste Schwilgué (1776-1856), ormai anziano, consegna alla cattedrale di Friburgo un nuovo e prezioso orologio. L'artigiano, già noto per aver costruito l'orologio astronomico per la cattedrale della sua città, che gli era costato ben dieci anni di lavoro (1838-1848) era stato incaricato della realizzazione di uno strumento di precisione che, a differenza di quello di Strasburgo, non doveva venir collocato nella chiesa ma nella torre campanaria, e quindi non aveva la necessità di destare la meraviglia dei visitatori, ma doveva funzionare alla perfezione, in modo da scandire efficacemente il tempo dell'intera città. L'opera è una delle più pregevoli del grande maestro e sostituiva un orologio precedente e piuttosto antico, realizzato nel 1547 da Nikolas Luterer, che oggi si può vedere presso l'Opera della Cattedrale. Il meccanismo, assai complesso, segna le ore, i minuti ed i secondi ed organizza le suonerie delle diverse campane in momenti stabiliti della giornata. Oggetto di cura e manutenzione continue è tuttora perfettamente funzionante. 

mercoledì 7 ottobre 2020

Arti e architetture. Assisi. La facciata di San Rufino

Assisi. San Rufino (foto Daniela Durissini)

La chiesa di San Rufino, ad Assisi, appartata ed un po' fuori mano, lontana dalla confusione che caratterizza la zona in cui si trova la basilica di San Francesco, presenta una delle più belle facciate medievali umbre. Sorta nel secolo VIII sul luogo dove già si trovava un tempio romano e dove era stata costruita una prima chiesa che ospitava le spoglie di San Rufino, fu modificata ed ampliata nella prima metà del secolo XI mentre un nuovo progetto fu redatto solo un secolo più tardi, nel 1140, da Giovanni da Gubbio. Ci vollero molti anni per completarne i lavori e la nuova costruzione fu consacrata solo nel 1253. A seguito di alcuni rovinosi terremoti la chiesa fu gravemente danneggiata e fu restaurata e modificata ancora una volta nel corso della seconda metà del XVI secolo. 
La facciata, realizzata tra XII e XIII secolo, rappresenta uno degli esempi più significativi del romanico umbro e, come accade spesso in questo genere di opere, vi si possono ammirare scene sacre e profane, in un caleidoscopio di figure che animano le tre fasce in cui è ripartita. L'apparato decorativo della fascia inferiore e più antica è forse quello più interessante, soprattutto dove si fermi l'attenzione sul portale centrale, vero dizionario dell'immaginifico del periodo: animali mostruosi, piante e figure allegoriche si alternano nella ghiera multipla, mentre al centro della lunetta c'è il Cristo, tra la luna ed il sole, entro un clipeo, con ai lati la Madonna e San Rufino. 

Assisi. San RufinoPortale centrale
(foto Daniela Durissini)

I portali minori, laterali, portano nella lunetta rispettivamente due uccelli e due leoni. 
Sopra i portali delle mensole sorrette da figure umane e decorate con figure zoomorfe precedono la soprastante galleria cieca. Nella zona mediana si aprono tre rosoni. Quello centrale sembra sorretto dai tre telamoni sottostanti. 
La parte superiore della facciata, ne completa il prospetto a capanna, ed è spoglia. Il timpano accoglie un  arco ogivale.

Alcune delle decorazioni della facciata della chiesa 

Archeologia. Aquileia. La lunga storia di un architrave

Aquileia (foto Daniela Durissini)

Lungo la passeggiata archeologica che conduce attraverso i resti dell'antico porto aquileiese, iniziando dal lato settentrionale, si nota, sulla sinistra, un interessante frammento di architrave assai ben lavorato, sormontato da un cornicione, posto su pilastri in mattoni, allo scopo di rendere l'effetto che tale elemento architettonico doveva produrre in origine. 

Aquileia. Architrave (foto Daniela Durissini)

Tale elemento, datato alla fine del II secolo d.C. e forse già reimpiegato, apparteneva, come è stato ampiamente dimostrato da Giuliana Cavalieri Manasse, alle Grandi terme aquileiesi le quali, nel V secolo, furono abbattute ed utilizzate come cava di pietre. Nel periodo tardo-antico, quando fu necessario costruire in fretta delle mura difensive fu impiegato tutto il materiale a disposizione, compreso quello proveniente da edifici di un certo pregio ormai in rovina o inutilizzati. Pertanto tali preziose e raffinate decorazioni furono trovate inglobate nelle opere di difesa costruite sulla banchina del porto, e precisamente nell'antemurale. Nella sua collocazione originale l'architrave posava su una serie di colonne distanziate di poco più di tre metri; presenta una decorazione di ottima fattura a foglie d'acanto, intercalate a rosette. 



martedì 6 ottobre 2020

Arti e architetture. Trogir. Il castello del Camerlengo

Trogir. Castello del Camerlengo (foto Daniela Durissini)

In epoca veneziana la Repubblica decise di ampliare le fortificazioni della città di Trogir, allora Traù, per meglio difenderla dagli attacchi degli Ottomani che, nel corso del XV secolo, si andavano facendo sempre più numerosi e temibili. Così, nella prima metà del secolo, venne dato l'incarico all'ingegnere militare Lorenzo Pincino, di progettare una struttura ampia e sufficientemente difesa che potesse ospitare i soldati incaricati di presidiare il territorio ed il camerlengo, rappresentante del potere amministrativo ed economico cittadino, con i suoi funzionari. 

Trogir. Castello del Camerlengo (foto Daniela Durissini)

L'opera, piuttosto semplice, a pianta rettangolare e rafforzata agli angoli da quattro massicce torri, fu realizzata come ampliamento ed estensione della preesistente fortezza, molto più limitata, dalle maestranze locali ed era circondata da un fossato che veniva superato, in corrispondenza dell'accesso, per mezzo di un ponte levatoio. 
L'insieme, restaurato, è oggi sede di spettacoli all'aperto.

►(click) Per saperne di più: Spazi di architettura. Trogir, Castel Camerlengo

mercoledì 30 settembre 2020

Archeologia. Aquileia. I mercati romani

Aquileia. Materiale di scavo dai mercati romani (foto Daniela Durissini)


Aquileia. Mercati. A sinistra piazza coperta con strutture in legno, a destra la piazza porticata
(foto Daniela Durissini)

►(click) Ricostruzione in 3D dell'area dei mercati Fondazione Aquileia

Il Fondo Pasqualis è quella parte dell'area archeologica aquileiese in cui sono stati portati alla luce, fin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, i resti di alcune strutture interpretate dagli archeologi come mercati (IV-V sec.). Un magazzino molto grande, con funzione di deposito ma anche di scambio di merci si trovava non lontano dall'antica basilica teodoriana, mentre qui si vedono due ampie aree, l'una un tempo coperta con strutture in legno, presenta un pozzo su uno dei lati minori, l'altra invece è dotata di porticati che affacciavano su un ampio cortile centrale ed ospitavano le botteghe che così si trovavano in uno spazio chiuso e riparato. In una delle botteghe sono state rinvenute alcune anfore contenenti del grano. Purtroppo dell'alzato non è rimasto nulla e ci si può solo immaginare la vivacità di questa piazza ai tempi in cui era frequentata da genti provenienti da diversi paesi, approdate al porto di Aquileia, e che qui scambiavano le loro merci. Come dimostrano i molti studi in materia infatti, Aquileia era all'epoca una piazza di scambi molto importante tra i paesi del Mediterraneo e quelli dell'area centrale europea. Scavi recenti hanno messo in luce i resti di una terza piazza destinata al commercio, favorito dalla vicinanza  del fiume Natissa.
Non lontano si trova la doppia linea delle mura difensive della città.

►(click) Archeocarta FVG

martedì 29 settembre 2020

Ambiente e territori. Sappada. L'antico mulino sul Piave

Sappada. Antico mulino (foto Daniela Durissini)

A Sappada, comune recentemente passato dal Veneto al Friuli Venezia Giulia, si trova il più antico mulino ancora esistente sul fiume Piave. Di origini medievali, la costruzione, non lontana da una segheria che pur sfruttava le acque del fiume, ha lavorato per secoli. Nel 1828 è stato oggetto di un primo restauro importante, che superava gli interventi di manutenzione ordinaria e restituiva al manufatto l'originaria integrità. Nel 1987 il proprietario, non più un mugnaio, ha convertito l'edificio in abitazione, conservandone però le caratteristiche esterne, compresa la grande ruota in legno. La zona è soggetta a vincolo ambientale e, recentemente, prima del passaggio alla regione Friuli venezia Giulia, il mulino è stato oggetto di una disputa tra l'amministrazione comunale, che voleva costruire una centrale elettrica che avrebbe ridotto notevolmente il flusso delle acque, e la Sovrintendenza regionale ai Beni architettonici e paesaggistici del Veneto, che ha mantenuto inalterato il sito ritenendolo, giustamente, di grande valore storico ed ambientale.

Sappada. Lo splendido contesto ambientale del mulino
(foto Daniela Durissini)


martedì 22 settembre 2020

Archeologia. Aquileia. Südhalle (pavimento musivo)

Aquileia. Südhalle. Pavimento musivo (foto Daniela Durissini)

Il magnifico mosaico dell'aula sud della Basilica aquileise, benché scoperto dagli archeologi austriaci già alla fine del secolo XIX, è  visibile al pubblico solo dal 2011, quando è stato realizzato il nuovo museo che comprende l'intera aula meridionale. Il pavimento musivo, datato tra il IV ed il V secolo, è ancora abbastanza integro, nonostante nel medioevo l'area fosse stata destinata a sepoltura. Di notevole interesse, dei tre campi in cui è diviso il mosaico pavimentale, quello centrale, caratterizzato da motivi geometrici (ottagoni raccordati da rombi e parallelepipedi) all'interno di alcuni dei quali sono stati raffigurati degli animali. 

►(click) Per saperne di più. Archeocarta FVG


mercoledì 16 settembre 2020

Arti e architetture. Marco Palmezzano ed il paesaggio.



Roma Palazzo Barberini
Marco Palmezzano. San Sebastiano (foto Daniela Durissini)

Nel museo romano di Palazzo Barberini l'opera di Marco Palmezzano (1460-1539), San Girolamo penitente nel deserto, firmata dall'autore e datata da lui stesso 1503, si trova esposta tra i quadri dei pittori veneti, lombardi ed emiliani. Lo spiegone che comprende questo gruppo di lavori sottolinea l'importanza del paesaggio nella raffigurazione del sito in cui si trova la grotta del santo, e come la natura venga rappresentata con riferimenti simbolici tipici, nel periodo, della pittura veneta. 
In effetti il Palmezzano, allievo di Melozzo da Forlì, si trasferì nel 1495 a Venezia, e dai veneziani assorbì le atmosfere lagunari e quelle dei paesaggi della regione, affinando un tratto che poi fu ripreso da Cima da Conegliano. 
E lo stesso tratto, ricco di riferimenti ai paesaggi veneti, si nota in altre sue opere come sullo sfondo della Crocifissione, conservata agli Uffizi o nel bellissimo San Sebastiano, conservato presso il Museo cristiano di Esztergom.





















⇒(click) Per approfondire. Davide Righini, Palmezzano Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 80 (2014)