Gaio Curzio ci viene presentato come un leader dell’ordine equestre. E non solo: Curzio era un fortissimus et maximus publicanus, il che dovrebbe bastare. Un’eloquente difesa proclama che se egli effettuava operazioni finanziarie, non lo faceva per profitto personale, ma per procurarsi mezzi a scopi benefici e caritatevoli. Non abbiamo prove circostanziate che confermino questo paradosso tra i finanzieri romani. Si sa di piú su suo figlio, un banchiere che aveva estese ramificazioni del proprio giro d’affari in tutto il mondo. Il disinteressato quanto illuminato Postumo, inoltre, prestò grandi somme di denaro al re d’Egitto che, non potendo ripagare il suo benefattore in moneta sonante, gli diede quel che poté e lo nominò capo del ministero delle Finanze del suo regno. Senatori e cavalieri: questa era la fazione di Cesare. Avendo dalla sua parte la plebe romana e le legioni della Gallia, un gruppo di famiglie di antica nobiltà, giovani di temperamento focoso e banchieri lungimiranti, Cesare conquistò facilmente Roma e l’Italia. Ma Roma aveva conquistato un impero: la sorte dell’Italia fu decisa nelle province. Nei tempi andati, il nobile romano accresceva la sua potenza e la sua autorità unendo a sé in amicizia l’aristocrazia d’Italia, legando il povero alla propria clientela. La pratica si estese presto alle province. In questo Pompeo Magno superò tutti i proconsoli che l’avevano preceduto.
Ronald Syme, La rivoluzione romana, Torino, Einaudi, (Piccola biblioteca Einaudi. Nuova serie Vol. 622), trad. Giusto Traina, Manfredo Manfredi
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