Nel 1925, Hermann Hesse, durante un viaggio verso Ulma ed altre località della Germania, descritto nel libro Un viaggio a Norimberga, si fermò per alcune settimane a Baden, per curare la sciatica di cui soffriva da tempo. Giunto nella stazione termale credendosi quasi sano, il paziente Hesse scoprì ben presto di non esserlo poi così tanto e, favorito dall'ambiente quieto e borghese del posto, si lasciò ben presto prendere dalla malattia e dallo sconforto. Se arrivando aveva osservato con compassione ed un leggero scherno gli "ischiatici", col loro incedere incerto e difficoltoso, dopo una settimana di cure si ritrovò lui stesso nelle medesime condizioni fisiche e nella disperazione più profonda. Capace di avvertire il decadimento fisico, ma soffrendo soprattutto per quello mentale, Hesse si sforzò di registrare la sua caduta verso uno stato depressivo che lo teneva attanagliato e che lo faceva assecondare le abitudini degli altri pazienti, rendendolo docile alle cure ma anche a tutto ciò che costituiva il contorno delle stesse, i giochi di società, i pomeriggi al cinema vedendo pellicole di dubbio valore, i discorsi che vertevano inevitabilmente sui dolori comuni ai presenti, il gioco d'azzardo, unico dovertimento che riusciva, momentaneamente, a sottrarlo all'apatia. Raccontando con leggerezza le sue avventure di paziente dfficile e di uomo fondamentalmente libero, Hesse si dà e ci dà una lezione su come si possa cadere nella trappola del tran tran quotidiano, nella ripetitività dei gesti e delle situazioni, facendosi travolgere dalla normalità e perdendo di vista la realtà e la coscienza della propria libertà e del proprio essere.
Hesse uscì d'improvviso da questo stato di torpore fisico e mentale e ben presto si rese conto che, se la sciatica non era scomparsa, almeno poteva sopportarla, considerandola un fattore secondario e non il centro della propria esistenza. Si convertì così, rapidamente, da uomo malato a uomo sano, tornò ad odiare le conversazioni banali, i film senza senso, i riti quotidiani dei malati, tornò insomma ad essere un uomo libero e critico verso sé stesso e verso la società, com'era sempre stato. Verso la fine del libro ci avverte che questi stati di apatia possono certo capitare e, in genere, si risolvono da soli ed all'improvviso, ma occorre sempre vigilare affinché non diventino consuetudine, non ci avviluppino stabilmente, non ci rendano uniformati al peggio, anzi, semplicemente uniformati alla società, verso la quale si deve mantenere sempre una visione critica se si vuole vedere la realtà, quella senza mediazioni, presente nella natura e percepita dagli spiriti liberi.
⇒(click) Il libro: Hermann Hesse, La cura, Milano, Adelphi, 1978, trad. I.A. Chiusano