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giovedì 6 febbraio 2020

Letture. Matteo Nucci. Le lacrime degli eroi



Perché gli eroi omerici piangono, e tanto, e quale significato hanno le loro lacrime? Rappresentano una debolezza o una forza? E chi può permettersi di piangere senza scadere nella considerazione di chi osserva? Il libro di Matteo Nucci indaga il misterioso legame tra pianto e forza interiore, la differenza tra il comportamento pubblico concesso agli eroi e quello che invece deve tenere il politico, nella fattispecie calza a pennello l'esempio di Pericle, il cui cedimento corrisponde inequivocabilmente alla decadenza ed alla perdita di fiducia da parte del popolo ateniese. 
Nucci, in questo suo bel libro, che ha preceduto l'altrettanto significativa trattazione dei classici, a lui cari, del recente L'abisso di Eros, ci conduce attraverso i due grandi poemi omerici, l'Odissea e l'Iliade, esaminando le diverse occasioni in cui i protagonisti piangono. Ulisse, il più amato degli eroi greci, e probabilmente il più umano, piange di nostalgia sull'isola in cui è trattenuto dalla bella Calipso che, alla fine, obbedendo all'ordine di Zeus trasmessole da Ermes, lo lascerà andare, e nasconde il suo pianto quando, ormai in salvo alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, si commuove, sentendo cantare all'aedo le vicende della guerra di Troia. In questo caso non si tratta di pudore, ci spiega Nucci, ma della volontà di seguire fino in fondo il suo piano, quello di non rivelarsi a coloro che lo hanno accolto e che lo riporteranno ad Itaca. Ed in altre occasioni ancora piangerà l'eroe, seguendo l'istinto e le diverse sfumature delle sue emozioni. 
Ma non è solo Ulisse a piangere, tutti gli eroi lo fanno, da Agamennone, ad Achille, il cui pianto disperato alla morte di Patroclo è uno degli episodi più significativi dell'Iliade, ed è lo stesso Patroclo a piangere, lo fanno Priamo ed Ettore, Menelao, Diomede; sono lacrime queste, diverse da quelle donne, che dimostrano, invece, il lato più fragile dell'essere umano, e senz'altro diverse da quelle alle quali assistono gli ateniesi, quando Pericle si avvicina al feretro del figlio più amato. La scena sconcertò chi vi assistette, fu ricordata per anni e rappresentò il crollo dell'uomo simbolo che, imperturbabile anche nelle ore più difficili e crudeli, aveva condotto con equilibrio la città nei lunghi anni della guerra contro Sparta. La ricordava anche Platone, nonostante non fosse ancora nato quando accadde. Il filosofo aveva però compreso la lezione che quel pianto inopportuno aveva offerto e, ci dice Nucci, non assistette alla morte di Socrate, forse proprio per non cadere nella trappola della commozione, che pretese di relegare al solo privato. Ormai il piangere apertamente e senza vergogna era un atteggiamento che doveva appartenere soltanto al passato eroico dei protagonisti dei poemi omerici e che mal si attagliava alla società in cui viveva, l'Atene del V e IV secolo a.C.. Ormai chi piangeva non aveva la forza d'animo necessaria per bilanciare quello sfogo, così naturale e così umano ma anche così eroico. Il pianto ormai era soltanto debolezza ed Atene aveva bisogno di uomini forti, anche se lontanissimi dal modello antico dell'eroe rappresentato da Omero.  


⇒(click) Il libro: Matteo Nucci, Le lacrime degli eroi, Torino, Einaudi, 2013


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