Translate

giovedì 30 luglio 2020

Letture. Angela Franchella. "Un caffè con Anna Banti"


Angela Franchella con questo libro porta la figura di Anna Banti all'attenzione di un pubblico più vasto di quello degli specialisti che solitamente si occupano di questa autrice. Donna schiva nella vita privata e professionale, riconosciuta come una delle migliori scrittrici del Novecento, pur tuttavia troppo poco frequentata dai lettori, Lucia Lopresti, iniziò la sua carriera come storica dell'arte ma, ancora al liceo, ebbe ad imbattersi in colui che divenne poi suo marito e dal quale, con tutte le sue forze, volle distinguersi, Roberto Longhi. Affascinata dalla personalità del noto critico d'arte, Lucia si laureò, pare proprio su suo suggerimento, con una difficile tesi su Marco Boschini, scrittore d'arte del Seicento, avendo come relatore Adolfo Venturi. Dopo un primo periodo in cui si occupò d'arte e ne scrisse parecchio, decise che il confronto con Longhi, che lei, anche dopo il matrimonio, conitnuò a chiamare pubblicamente Maestro, l'avrebbe costretta a vivere ed agire sempre nella sua scia e prese pertanto la decisione di abbandonare la storia dell'arte per dedicarsi alla scrittura. Oltre a questo cambiò anche il nome ed esordì con quello di una parente, donna misteriosa e molto particolare, Anna Banti. Nei suoi scritti affrontò spesso il tema della condizione femminile, riservando alle sue protagoniste uno sguardo ed un giudizio severi, tuttavia il suo capolavoro vede come protagonista una figura straordinaria che, in qualche modo, seppe redimersi da una condizione di sofferenza e soggezione: Artemisia Gentileschi, la nota pittrice che nel XVII secolo fece parlare di sé per le sue capacità e per la forza d'animo che le consentì di superare la violenza subita da ragazza e di affrontare un processo durante il quale accusò il suo stupratore e riuscì a farlo condannare. 
Il romanzo fu scritto dalla Banti per due volte, dato che la prima copia ultimata fu perduta durante un bombardamento su Firenze, nel 1944. L'autrice ebbe la forza di riscriverlo ma lo modificò allontanandosi dalla semplice biografia. 
Il libro Artemisia uscì nel 1947 e fu un grande successo. Anna Banti scrisse moltissimo, tradusse, fu insomma assai prolifica. Il regista Mario Martone ha portato sullo schermo in anni recenti alcuni episodi di un suo romanzo storico Noi credevamo, in cui, ancora una volta la Banti aveva dimostrato che, in fondo, le sue radici come storica e ricercatrice erano quelle che davano i frutti migliori nella sua opera narrativa. 
Angela Franchella, compie la scelta, a mio avviso non molto felice, di fingere un'intervista con la scrittrice, che poi immagina accanto a sé nel momento di redigere il suo libro, quando invece da ottima ricercatrice avrebbe potuto scrivere semplicemente una biografia. Probabilmente la scelta è dovuta alla necessità di circoscrivere la gran quantità di documenti che conosce, ha consultato e, utilmente, messo nella bibliografia in fondo al volume. Comunque sia alla fine della narrazione si è compreso qualcosa di più della scrittrice Anna Banti e si è invogliati ad affrontare ciò che non si conosce della sua ampia produzione letteraria che, come detto, Angela Franchella conosce molto bene ed alla quale si accosta con evidente complicità ed affetto. 



mercoledì 29 luglio 2020

Fotografare l'arte. L'ara votiva di Roma e Aquileia

Aquileia. Museo Archeologico Nazionale
Ara votiva di Roma e Aquileia (238 d.C.)

(foto Daniela Durissini)
Presso il museo Archeologico Nazionale di Aquileia è conservata un'ara votiva scolpita in marmo che ricorda la fedeltà della città a Roma. Vi si vedono infatti due figure, Roma, seduta, con i simboli del potere, la corona e lo scettro e, inginocchiata, una figura di giovinetto che rappresenta Aquileia che le rende omaggio. L'ara votiva, databile al 238 d.C., fu realizzata per ricordare la difesa, da parte di Aquileia, degli imperatori Pupieno e Balbino, nominati dal senato romano, dopo la morte di Gordiano I e Gordiano II, uccisi mentre combattevano contro Massimino il Trace, proclamato imperatore dal suo esercito nei balcani e ucciso proprio nella città adriatica, dopo che gli aquileiesi avevano opposto una eroica resistenza all'usurpatore.

giovedì 23 luglio 2020

Letture. Mary Shelley. Rambles in Germany and Italy in 1840, 1842, and 1843



Mary Shelley, nota soprattutto come autrice di Frankestein, fu una viaggiatrice attenta e colta. Dei due volumi dedicati ai viaggi in Germania ed Italia compiuti con il figlio Percy Florence e con alcuni amici, le lunghe parti dedicate all'Italia rivelano una donna curiosa e capace di comprendere a fondo il paese in cui si trova e di cui, grazie ai precedenti viaggi effettuati con il marito, il poeta Percy Bysshe Shelley, conosce la lingua. Mary quindi, è in grado di comunicare con le persone con le quali viene a contatto e questo, ovviamente, facilita anche un certo approccio meno superficiale di quello che caratterizza sovente gli altri stranieri impegnati all'epoca nel famoso Grand tour. 
Il marito Percy, poeta romantico, allievo del padre di Mary, il filosofo William Godwin, era morto nel 1822 proprio in Italia, durante una traversata in barca nel golfo di La Spezia, e Mary, che era profondamente innamorata, ne portò il segno per tutta la vita e non si risposò. Passati quasi vent'anni da quell'episodio decise però di tornare in Italia con l'unico figlio sopravvissuto dei quattro che aveva avuti dal marito, anche se in più parti del lungo resoconto di viaggio emergono i timori che nutre per la vita del giovane, specialmente quando questi decide di navigare sul lago di Como o nel golfo di Napoli. 
Nel primo volume la Shelley racconta di un lungo soggiorno a Cadenabbia, sul lago di Como, in cui descrive non solo la bellezza dei luoghi ma anche la famiglia degli albergatori che li ospitano, rivelando il meccanismo nascosto del potere matriarcale nell'organizzazione dell'attività e nella gestione del quotidiano. Attratta da tutto ciò che la circonda, fin nei minimi dettagli, offre un resoconto preciso della situazione politica e sociale dell'epoca in Lombardia, e non tralascia alcuni importanti e dettagliati riferimenti culturali, che ad altri viaggiatori sarebbero senz'altro sfuggiti. Il viaggio continua a Lecco, Bergamo e poi a Milano dove, a causa di un contrattempo, rimane da sola per alcuni giorni e da dove riparte per lasciare l'Italia. Nel secondo volume invece l'itinerario è molto più lungo e complesso e tocca diverse località partendo dal Lago di Garda, dove giungono attraverso il passo del Brennero, Bressanone e Trento, e quindi Verona, Venezia, Firenze, Roma, Sorrento, Capri, Pompei, Amalfi, Salerno. In ogni località, dovendo fermarsi per parecchio tempo, iniziano a cercare un appartamento, specialmente a Venezia, molto cara, ma alla fine Mary giunge sempre alla conclusione che si trova in Italia per viaggiare e conoscere e non certo per svolgere i lavori di casa e quindi ripiegano su un albergo, alle volte trovandosi molto bene ed alle volte adattandosi a sistemazioni di fortuna. Ma chi cercasse nei resoconti di viaggio di Mary, scritti come d'uso all'epoca in forma di lettera, i dettagli dell'itinerario rimarebbe deluso. Le descrizioni di ciò che vede sono per la maggior parte dei casi scarne ed incomplete. In realtà ciò che interessa alla Shelley è la quotidianità, la cultura e l'attualità politica, il che la porta a soffermarsi a lungo su singole figure di intellettuali ed artisti e sulla storia recente del paese, rivelando appieno la libertà di pensiero alla quale il padre l'aveva allevata e che negli anni aveva coltivato e la sua non comune cultura. Un'attenzione particolare è sempre rivolta alla condizione della donna, sia questa la proprietaria dell'albergo del nord del paese, la nobildonna veneziana o la contadina caprese, con il viso cotto dal sole, la sua aria fiera e la forza d'animo che la sorregge anche nelle difficoltà della vita quotidiana. Mary, donna libera ed autonoma, si confronta di continuo con le donne che incontra, parla con loro, vuole capire e riferisce, gettando uno sguardo al di là delle apparenze e dando vita e dignità ad ognuna di loro. 
Questo approccio particolare, che raggiunge la sua massima espressione verso la fine del secondo viaggio, si scosta decisamente dalle impressioni iniziali del primo itinerario italiano, laddove nel riferire della traversata del passo dello Spluga, la Shelley offre al lettore una delle poche descrizioni particolareggiate dell'ambiente attraversato, rivelando la sua matrice romantica. Il fiume impetuoso, le montagne scure e la strada pericolosa lungo la quale sale faticosamente la carrozza, quasi in bilico, a tratti, sul precipizio, dipingono un quadro che riporta all'immagine che ne offrì il pittore William Turner, ma forse, maggiormente, ad un dipinto più noto dello stesso artista, Il ponte del diavolo al San Gottardo.

mercoledì 22 luglio 2020

Ambiente e territori. Šmartno (San Martino) sul Collio sloveno

Šmartno (foto Daniela Durissini)
Il paese di Šmartno, sul Collio sloveno, abbarbicato in cima ad un'altura che domina l'intera zona, è sorto anticamente sul luogo dove si trovava un insediamento militare romano. La posizione privilegiata fece sì che il luogo non perdesse d'importanza nemmeno nel corso del medioevo e nel periodo immediatamente successivo quando l'abitato venne fortificato per poter ospitare in sicurezza le popolazioni locali già durante le prime incursioni turche. Per tutto il periodo in cui queste si susseguirono con una certa frequenza il tabor di Šmartno, che prese il nome dalla chiesa attorno alla quale si sviluppò, intitolata appunto a San Martino, offrì riparo a coloro che erano costretti a lasciare le loro case a causa delle veloci ma devastanti razzie che miravano soprattutto all'approvviginamento di viveri per i soldati turchi. La cinta muraria venne poi rafforzata con delle torri ed in parte ricostruita a partire dal primo decennio del 1500, nel periodo che vide di fronte gli Asburgo e la Repubblica di Venezia. Tale cinta è rimasta pressochè intatta ed ancora oggi circonda l'abitato.

Šmartno prima dei restauri
Šmartno, le cui mura sono state recentemente restaurate, è uno dei paesi più caratteristici della zona, accoglie entro le sue mura botteghe d'arte e, spesso, interessanti manifestazioni culturali. 

►(click) Per approfondire: Scheda su Šmartno nel sito della Goriška Brda

martedì 14 luglio 2020

Archeologia. Il cavallino preistorico del Giura

(foto Daniela Durissini)
Nel museo del castello di Tubinga è conservato un piccolo cavallo selvaggio di nemmeno 5 cm. di lunghezza scolpito in un osso di Mammut circa 40.000 anni fa. E' stato ritrovato durante uno scavo archeologico effettuato nella grotta di Vogelherd, nel Giura. Si tratta di un reperto di estrema importanza in quanto considerato una delle più antiche opere d'arte dell'umanità. 

Tubinga riproduzione in bronzo del cavallo preistorico
(foto Daniela Durissini)
Riprodotto in bronzo in grandi dimensioni è l'emblema del museo. L'opera originale fa parte della collezione dell'Università di Tubinga ed è stata dichiarata patrimonio dell'umanità Unesco assieme al complesso delle grotte del Giura Svevo "Grotte ed arte dell'era glaciale nel Giura Svevo"

►(click) Scheda sul Giura Svevo molto dettagliata 

martedì 7 luglio 2020

Archeologia. Aquileia. Rilievo del "Sulcus primigenius"

Aquileia. Museo Archeologico Nazionale. Rilievo del sulcus primigenius
 (foto Daniela Durissini)
Nel Museo Archeologico Nazionale di Aquileia è esposto un rilievo in marmo di grande interesse che rappresenta il rito di fondazione della città. Questo, secondo la tradizione che si rifaceva alla figura di Romolo ed a quanto avvenne per Roma, consisteva nel tracciamento di un solco effettuato con un aratro trainato da buoi, ed avveniva alla presenza di magistrati provenienti da Roma, incaricati di dare ufficialità all'azione e di testimoniarla. Si tracciava così il perimetro della nuova fondazione (pomerium) che aveva caratteri di sacralità ed inviolabilità. Il rilievo, risalente al I secolo a.C., si trovava probabilmente in un luogo pubblico dove poteva essere visto da tutti e dove, nei secoli, continuava a ricordare l'origine della città, anche quando s'era ingrandita ed era divenuta un centro commerciale di grande importanza.

giovedì 2 luglio 2020

Ambiente e territori. Il tabor di Vipava

Vipava. Tabor. Torre principale (foto Daniela Durissini)
Il tabor di Vipava, rispetto ad analoghe realizzazioni contemporanee e vicine, è molto particolare. Infatti, mentre per la maggior parte delle altre si tratta di semplici fortificazioni spontanee, realizzate dalle genti del posto per difendersi dalle incursioni dei Turchi, qui si tratta di un insieme di case nobili, che pur sono state circondate da un muro nello stesso periodo e con le stesse motivazioni. Del resto il sito era già naturalmente abbastanza ben difeso, avendo alle spalle i pendii del Monte Nanos e, sul lato opposto, il fiume Vipava, le cui sorgenti distano poco. 

Tabor di Vipava. Seconda torre
(foto Daniela Durissini)
La cinta murata, rafforzata da alcune torri circolari, due delle quali, una più grande ed una di dimensioni minori, si possono ancora vedere, era chiusa da una porta che, comunque, restava sbarrata di notte.

Tabor di Vipava. Porta (foto Daniela Durissini)
In realtà la struttura, sorta in un luogo in cui già nel XIII secolo sussisteva una piccola fortificazione, servì anche per difendersi dai Veneziani. Nel XV secolo le case erano occupate dalla famiglia Baumkircher, mentre nel secolo successivo passarono ai Lantieri ed agli Edling che, sembra, possedessero la maggior parte del complesso nella seconda metà del XVII secolo. Gli attuali edifici risalgono per lo più al XVIII secolo e sono state in gran parte rimaneggiate e restaurate.