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giovedì 30 marzo 2017

Il concetto di "fine del mondo". Un libro di Guillermo Gucci

In una libreria di Buenos Aires ho trovato il bel libro di Guillermo Gucci Tierra del Fuego. La creación del fin del mundo (Fondo de Cultura Económica, 2014). 
Il titolo mi ha incuriosita perché il concetto di fine del mondo attrae da tempo viaggiatori, curiosi e semplici turisti (soprattutto questi ultimi) dalle parti di Ushuaia, ritenuta, a torto, la fine del mondo. In realtà non si considera che, dall'altra parte del Canale di Beagle, c'è ancora almeno l'Isla di Navarino (cilena), con il suo centro, Puerto Williams che, se vogliamo, sarebbe, a maggior ragione, la vera fine del mondo.
Il concetto di fine del mondo è piuttosto recente, affascina molti, ed è assai legato proprio alla promozione turistica della zona. Pur di non perdere questa fascia di clienti Ushuaia, vedendo crescere sempre più il centro abitato di Puerto Williams, tenta ora di proporsi come punto di partenza per quella che non può che essere la fine del mondo: la regione Antartica.
Comunque sia il libro di Gucci, ripercorre la storia della scoperta della parte più meridionale dell'America iniziando dai primi esploratori, che si trovarono di fronte ad una popolazione indigena che, paradossalmente, non avendo la percezione degli spazi al di là dei territori usualmente frequentati, non si vedeva come abitante della fine del mondo, bensì del centro del mondo stesso.



Museo Historico Nacional de Argentina. Patagoni (1764)


Ed è questa una storia lunga e complessa, soprattutto dopo i primi viaggi di scoperta, quando gli spagnoli vollero installarsi in queste terre meridionali ed inospitali, allo scopo di poter controllare il passaggio attraverso i due Oceani, consentito, in un primo momento, soltanto attraverso il burrascoso stretto di Magellano. La fine della spedizione di Sarmiento de Gamboa, tra ammutinamenti, precipitose ritirate e tentativi falliti di fondare delle colonie lungo lo stretto, la grande perdita di vite umane, fa comprendere appieno quali difficoltà si trovassero di fronte coloro che giungevano così lontano, al sud del mondo. 




Pedro Sarmiento de Gamboa (Raimundo Pastor)



Un sud che però è definito come fine della terra conosciuta e non ancora come fine del mondo. L'autore fa questa distinzione, molto importante, tra i due concetti. L'idea della fine del mondo, insomma è un'invenzione, resa possibile molto tardi, solo dopo aver ottenuto una conoscenza completa del mondo stesso ed essersi resi conto esattamente dell'ubicazione di queste terre. E l'autore arriva a questo punto dopo aver ripercorso tutte le tappe che hanno portato a questa conoscenza, fornendo al lettore un quadro esaustivo ed interessante della storia delle esplorazioni e degli insediamenti umani nell'estremo sud dell'America, dai primissimi viaggi, a quello determinante del Beagle di Fitz Roy,



Conrad Martens. Il Beagle lungo le coste della Terra del Fuoco



con a bordo un giovane Charles Darwin che non dimostrò alcuna simpatia nei confronti degli indigeni che incontrava, 



Charles Darwin


all'insediamento della prima missione a Ushuaia, dai primi tentativi di insediamento stabile, alla realizzazione dei centri maggiori, alla costruzione delle infrastrutture che, come nel caso della stessa Ushuaia, arrivano straordinariamente tardi, alcune dopo la metà del secolo scorso, togliendo la località dal relativo isolamento patito fino ad allora. Sono storie sorprendenti, che si leggono d'un fiato, e che affascinano, come il concetto di fine del mondo.


Il faro della fine del mondo





Il faro sul Canale di Beagle (foto Daniela Durissini)



Il faro, della fine del mondo, tanto fotografato, in realtà si trova sul canale di Beagle, poco distante da Ushuaia ed in tempi relativamente recenti è andato a sostituire l'originario faro, del 1882, che si trovava sull 'isola di San Juan de Salvamento, smantellato solo venti anni dopo la costruzione. Tuttavia allora non si aveva l'idea della fine del mondo e quindi non c'è alcuna relazione con questo concetto, introdotto ben più tardi.



Julius Verne. Il faro della fine del mondo



Il faro della fine del mondo (titolo originale: Le phare du bout du monde), è il titolo di un racconto di Julius Verne, corretto dal figlio e pubblicato, a puntate, dopo la sua morte, nel “Magasin d'Education et de Récréation” dal 15 agosto del 1905, al 15 dicembre dello stesso anno. Il faro era collocato da Verne sull'Isola degli Stati. 


Intervista di El Pais con Guillermo Gucci

mercoledì 29 marzo 2017

Lucas Bridges. "Ultimo confine del mondo"




Non conoscevo la figura di Lucas Bridges fino a quando, in viaggio in Argentina, non ho trovato il suo libro El último confin de la tierra: una juventud entre los fueguinos (2016) tradotto in spagnolo e pubblicato recentemente dalla casa editrice Altair, di Madrid, dall'originale inglese Uttermost Part of the Earth (1948). 






Ed è stata una fortuna, dato che l'edizione italiana, uscita per Einaudi, Ultimo confine della Terra. Viaggio nella Terra del Fuoco (2009), è da tempo esaurita.






Il libro, di piacevole lettura, narra la vita dell'autore durante il periodo trascorso nella Terra del Fuoco, ed è stato scritto a Buenos Aires, quando Bridges, ammalato di cuore, aveva da tempo lasciato il suo ultimo impiego, come amministratore di un'estancia cilena, ed è stato pubblicato solo un anno prima della sua morte, avvenuta nell'aprile del 1949.
Come precisa lo stesso autore il libro, l'unica sua opera letteraria, si deve all'insistenza di A.F. Tschiffely, scrittore e viaggiatore (fu protagonista, tra l'altro, di un lunghissimo viaggio a cavallo da Buenos Aires a New York), che lo contattò quando ancora lavorava in Cile, andando a trovarlo nell'estancia che dirigeva, e che gli rinnovò l'invito qualche temo dopo, quando si trovarono a Londra. Tschiffely, tra l'altro, corresse e tagliò molti brani del libro, accorciandolo notevolmente e rendendolo più scorrevole, ed un secondo lavoro di ripulitura fu fatto dalla casa editrice inglese che per prima accettò di pubblicarlo.



A.F. Tschiffely durante il suo viaggio a cavallo 


La storia




Figlio di Mary Ann Varder e del missionario Thomas, arrivati ad Ushuaia nel 1871 per occuparsi della missione lasciata dal reverendo Stirling, che per primo aveva abitato quel luogo, fu il terzo bianco nato nella terra degli Yaghan. Il primo era stato suo fratello Despard. La famiglia fu accresciuta, negli anni successivi, di altri tre figli, William, Bertha e Alice, che andarono ad aggiungersi alla primogenita, Mary, nata prima dell'arrivo dei genitori a Ushuaia, a Despard ed a Lucas. Nel 1874 arrivò dall'Inghilterra anche la zia Johanna, sorella della madre, per portare aiuto alla famiglia e sostenere la meno forte Mary Ann, nel suo compito di madre e di moglie, reso indubbiamente complicato dalle condizioni in cui si viveva allora all'ultimo confine della terra.



La famiglia Bridges a Ushuaia. Lucas è il bambino a destra


Il lungo racconto si snoda nel tempo trascorso tra il 1871 ed il 1887, quando il padre lasciò la missione per trasferirsi nell'estancia di Harberton e poi negli anni successivi, quando Lucas visse per qualche tempo con l'altro gruppo di nativi presenti all'interno della Terra del Fuoco, gli Ona, per poi fondare con il loro aiuto la nuova estancia di Valmonte, vicino a Rio Grande.



Indigeni Yaghan



Cresciuto accanto agli Yaghan, indigeni che vivevano lungo le coste, 



Indigeno yaghan con la sua canoa


pescando e raccogliendo molluschi e spostandosi a bordo di piccole canoe, Lucas sognava di entrare in contatto con gli indigeni delle montagne, i Selknam o Ona, coloro che vivevano più appartati, all'interno della Terra del Fuoco. 



Guerriero Ona


La loro lingua misteriosa, i loro costumi schivi, esercitavano sul ragazzo un fascino irresistibile, finché riuscì ad entrare in contatto con loro e, cosa più importante, a conquistare la loro fiducia, a tal punto che venne considerato quasi come uno di loro, e gli venne concesso di partecipare ai riti segreti. Per questo motivo, per la profonda conoscenza di ambedue i popoli, la testimonianza di Lucas Bridges, assume una straordinaria importanza. Inoltre il suo racconto descrive con precisione l'evoluzione di Ushuaia, da minuscola sede missionaria a paese sul quale l'Argentina iniziò a far valere i propri diritti territoriali, ritenuto infine dalla famiglia Bridges troppo popolato e troppo cambiato, per continuare a viverci. Il terreno di Harberton, dove fu costruita l'estancia in cui si trasferì la famiglia venne concessa a Thomas Bridges dallo stato argentino come riconoscimento del lungo lavoro svolto a Ushuaia.
Per Lucas però, che sognava gli ampi spazi liberi che avevano caratterizzato i primi anni della sua vita, anche l'estancia era troppo comoda e troppo civilizzata, voleva vivere nei boschi dell'interno e così fece durante tutto il periodo in cui, con il determinante aiuto degli indigeni Ona, aprì il sentiero che, attraverso le montagne, univa la zona del lago Fagnano alla costa meridionale (oggi sentiero Bridges). Lungo questo percorso pensava di trasferire le greggi di proprietà della famiglia verso Nord. Con gli stessi Ona, minacciati, come gli altri indigeni della Terra del Fuoco, dall'avanzare dei bianchi, che entravano nei loro territori per cercare l'oro ma anche, e soprattutto, per introdurvi dei grandi allevamenti di ovini, costruì e mantenne la nuova estancia di Viamonte, non lontano da Rio Grande. 
Lucas Bridges tentò, per quanto possibile, di difendere gli Ona, consentendo loro di installarsi liberamente sui propri terreni, ma all'epoca l'Isla Grande era oggetto di molti appetiti, riassunti in un personaggio che segnò, negativamente, la storia di quei territori. 
Julius Popper argentino di origine rumena, 



Julius Popper



che con l'appoggio dello stato argentino, amministrava l'intera isola, si rese infatti responsabile del genocidio degli Ona,


Spedizione Popper. Genocidio degli Ona


avendo organizzato una vera e propria spedizione per eliminare gli indigeni e lasciare il territorio della Terra del Fuoco ai cercatori d'oro e agli allevatori. 



Uccisione di un indigeno Selknam durante la spedizione Popper

Quando scoppiò la prima guerra mondiale Lucas Bridges andò in Inghilterra e ritornò in terra del Fuoco solo alla fine del conflitto, con la moglie inglese, scoprendo che ormai tutto il mondo che conosceva era scomparso. Gli indigeni erano stati uccisi negli scontri con i coloni ma soprattutto dalle malattie che questi avevano portato, di fronte alle quali non possedevano difese immunitarie. 
Pochissimi dei suoi amici erano sopravvissuti e lo rimproveravano di averli dimenticati.

Ciò che il libro non racconta è che, dopo aver vissuto per un periodo in Rodesia, dove conduceva una fattoria assieme ai fratelli, si lasciò convincere, senz'altro attratto dalla possibilità di vivere nuovamente in Patagonia, ad amministrare un'estancia nella zona del rio Baker, nel sud del Cile. L'estancia era enorme e solo per visitare tutti i terreni posseduti, ci mise più di due settimane, tornando estremamente provato. Ma lì Lucas Bridges perse il buon nome che s'era fatto in Argentina, essendo costretto dalle circostanze a difendere la terra che gli era stata affidata e dovendo per questo motivo scacciare dalla stessa le famiglie che vi erano insediate da tempo. I numerosi scontri con la popolazione locale e l'aiuto chiesto ai carabineros per effettuare gli sgomberi, gli valsero il malcontento se non l'odio della gente. Per l'estancia Bridges fece moltissimo e la rese produttiva in poco tempo, dimostrando ancora una volta la propria esperienza ed il proprio carattere e riuscendo là dove prima di lui altri avevano fallito. Si dice che tornasse spesso alla foce del rio Baker, a Caleta Tortel, dove il fiume arriva al Pacifico e dove, nei primi decenni del XX secolo, era ancora insediato un piccolo gruppo di indigeni Alakaluf. Questi incontri lo riportavano lontano nel tempo, nei momenti più felici della sua vita, quando la Terra del Fuoco era popolata da Yaghana e Ona e quando a Ushuaia vi era solo una piccola missione, guidata dal padre Thomas e non un carcere gestito dallo stato argentino.


martedì 28 marzo 2017

James Gordon Bennett e il Namouna

J.L. Stewart. A bordo del Namouna

James Gordon Bennett

James Gordon Bennett, proprietario dello yacht Namouna, sul quale Albert Robin ed altri ospiti fecero i due viaggi, in Istria e Dalmazia, era un personaggio così particolare da legare il suo nome ad un'espressione inglese, popolare nei primi decenni del XX secolo, allorché s'usava esclamare Gordon Bennett, per significare sorpresa, incredulità ma anche esasperazione. Era figlio di James Gordon Bennett (con il quale, a causa dell'omonimia, veniva spesso confuso), emigrato dalla Scozia negli Stati Uniti dove, nel 1835, a New York, aveva fondato Il New York Herald, con l'idea di rivolgersi ad un pubblico popolare. I critici giudicarono il suo giornalismo ignorante e volgare ma, come c'era da aspettarsi, fece fortuna e si arricchì, accumulando una certa fortuna.
Il figlio seguì le orme del padre ma, avendo una certa propensione alle spese folli ed a trascorrere piacevolmente dei lunghi periodi là dove batteva il cuore più moderno e vitale dell'Europa, cioè Londra e Parigi, spese buona parte della fortuna ereditata.
Promosse e finanziò gare sportive, si concesse viaggi e molte donne, amò circondarsi di amici ma si distinse anche per gli eccessi. Celebre la rottura del fidanzamento con Caroline May, donna colta ed intelligente, poetessa, letterata e poi editrice, avvenuto quando arrivò a casa di lei in ritardo ed ubriaco ed urinò nel camino del salone, davanti agli esterrefatti ospiti. Il mattino successivo fu sfidato a duello dal fratello di lei, senza conseguenze per entrambi.



Nave Jeannette

Va ricordato però anche per aver istituito la Coppa Gordon Bennett, competizione che si tiene tuttora tra aerostati a gas, per aver finanziato la sfortunata spedizione al Polo Nord di George W. DeLong, effettuata con la nave Jeannette, 
durante la quale vennero scoperte le isole che presero il nome dell'esploratore, una delle quali, Bennetta, venne dedicata al finanziatore; per aver inviato Stanley, allora corrispondente dell'Herald, in Africa, alla ricerca di Livingstone, con una spedizione in cui non si lesinarono i mezzi, e per aver introdotto diverse innovazioni nel mondo della carta stampata, espandendo la rete redazionale del suo New York Herald.
Un'altra grande passione di Bennett fu la nautica da diporto. Con la sua Henrietta vinse, nel 1866, la regata transatlantica, dalla costa del New Jersey all'isola di Wight, 

Yacht Henrietta
con il Namouna compì diversi viaggi, tra i quali appunto quelli in Adriatico, lungo le coste dell'Istria e della Dalmazia, raccontati da Albert Robin,


Yacht Namouna

ed illustrati da J.L. Stewart 

J.L. Stewart. A bordo del Namouna

ospitando a bordo artisti ed amici, tra i quali  un giovane Winston Churchill.

Ponte del Namouna

Con il suo ultimo yacht, Lisistrata, superò sé stesso, dotandolo di servizi allora impensabili, come il bagno turco ed una stalla che ospitava una mucca, per far avere ai passeggeri latte fresco tutti i giorni. Inoltre vi imbarcò un'automobile ed è celebre l'episodio di lui che guida a Bermuda, scandalizzando due turisti d'eccezione: Mark Twain e Woodrow Wilson, 

Woodrow Wilson
che da allora si impegnarono per far bandire i mezzi motorizzati dall'isola.


Mark Twain al tavolo da lavoro
Noto playboy si sposò a 73 anni con la vedova di George de Reuter, colui che aveva fondato l' omonima agenzia di stampa. Morì solo cinque anni più tardi, nel 1918, nella sua villa in Riviera. Nel 1920 l'Herald fu venduto e divenne il New York Herald Tribune.

Standford White
Bennett aveva fatto progettare dal suo amico architetto Standford White, un mausoleo molto particolare, a forma di gufo, tuttavia, a causa della morte prematura di questi, ucciso dal marito dell'amante, l'opera non fu realizzata. E fu un peccato perché White non era personaggio qualunque. Con i soci dello studio d'architettura McKim, Mead e White, 


McKim, Mead e White


aveva progettato numerose residenze per la buona borghesia newyorkese ed anche diversi edifici pubblici, tra i quali va ricordata la biblioteca pubblica di Boston, ispirata al rinascimento italiano, e quella della Columbia University di New York, decisamente neoclassica. Lo studio aveva progettato anche lo Yacht Namouna. Per quanto concerne i monumenti funerari aveva disegnato quello dello scrittore e storico Henry Brooks Adams e della moglie, realizzato poi dallo scultore Augustus Saint-Gaudens nel cimitero di Rock Creek a Washington e conosciuto come Adams Memorial.


Adams Memorial


lunedì 27 marzo 2017

Albert Robin nello studio di Manet


Albert Robin  (Alphonse Lièbert)

Leggendo la biografia di Albert Robin, di cui ho pubblicato qui, nei giorni scorsi, la mia traduzione dei viaggi in Istria e Dalmazia, finora inediti in italiano, non si può non essere attratti dalla sua vita di intellettuale, che trascorse parallela a quella di scienziato e di medico. Pensandoci però, non è così strano che un medico che mise in discussione la medicina ufficiale ed i suoi rimedi, per tentare nuovi percorsi di cura, partendo dalle vere cause della malattia e non dai sintomi, fosse all'epoca una persona fuori dal comune ed esercitasse anche il mestiere (non è dato sapere se retribuito oppure no) di critico letterario per il New York Herald, testata alla quale inviava periodicamente le sue recensioni. Robin viveva appieno la complessità della vita e questi due aspetti, il medico ed il critico letterario, convivevano felicemente nella sua persona. A Parigi frequentava i salotti letterari ma anche diversi artisti, fra i quali Georges Jeanniot ed Édouard Manet.


Edouard Manet (folo Félix Nadar)

Pierre Georges Jeanniot


Georges Jeanniot (1848-1934) era figlio del pittore Pierre-Alexandre e, nato in Svizzera, aveva trascorso i suoi primi anni a Digione, dove il padre dirigeva la Scuola della Belle Arti e dove aveva appreso i primi rudimenti della tecnica pittorica. Dopo un periodo trascorso nell'esercito, durante la guerra franco-prussiana, si era trasferito a Parigi, dove frequentava l'ambiente degli artisti e dove aveva avuto occasione di esporre al Salon. le sue opere, alcune delle quali a soggetto militare. 


Pierre Georges Jeanniot. Réservistes (1870)


Albert Robin era di solo un anno più vecchio di lui ed era nato a Digione, dove evidentemente i due si erano conosciuti. Così, entrambi a Parigi, entrambi appassionati d'arte, avevano iniziato a frequentarsi. E' infatti proprio il Jeanniot che testimonia la presenza di Robin nello studio di Manet, quando questi, ormai molto ammalato, stava dipingendo Un bar aux Folies-Bergère. Ma i due avevano anche qualcos'altro in comune, e cioè la passione per la letteratura. Il Jeanniot infatti aveva illustrato molti libri, sia classici che contemporanei era direttore del Journal amusant e collaborava a due altre testate. Dal racconto della prima visita fatta allo studio di Manet, che Jeanniot pubblicherà su La grande Revue, del 10 agosto 1907, non sembra però che fosse stato lui ad introdurre Robin presso il pittore.



Journal Amusant


Édouard Manet (Parigi 1832-1883) considerato come il maggior pittore pre-impressionista, aveva faticato moltissimo per potersi dedicare alla pittura, ostacolato dal padre che lo voleva avvocato, che lo aveva mandato in Brasile su una nave per favorire un'eventuale carriera come capitano marittimo, esperienza dalla quale il giovane Édouard aveva riportato tanti schizzi ma nessuna positiva esperienza lavorativa, che alla fine lo aveva lasciato fare dicendogli però che sarebbe stato un fallito. 
Aveva accettato un lungo periodo di apprendistato nello studio di Couture, distaccandosene dopo sei anni perché divenuto troppo indipendente ed incompatibile con il maestro, ed infine aveva dato libero sfogo a quelle che erano le sue idee riguardo alla pittura, scontrandosi però, anche in quel campo, con buona parte dei critici e facendosi negare la possibilità di esporre al Salon. Una personalità complessa, quella di Manet, riconosciuta tardivamente, che però sapeva attingere a fonti d'ispirazione diverse e assai stimolanti, come al rapporto di amicizia con lo scrittore Charles Baudelaire, conosciuto grazie al gruppo dei Realisti, con i quali questi era in contatto. Ed era stato proprio Baudelaire a suggerire, con un saggio del 1863, pubblicato su Le Figaro ed intitolato Il pittore della vita moderna, la tela Musique aux Tuileries, che però non aveva incontrato il favore della critica, 


E. Manet. Musique aux Tuleries (1862)

seguito da un altrettanto controverso Dejeuner sur l'herbe


E. Manet. Le déjeuner sur l'herbe (1863)

Con questi quadri Manet non aveva solo scandalizzato il pubblico e scatenato la critica, che l'aveva indicato come un artista di secondo piano in cerca di scandali per poter apparire, ma si era alienato quasi definitivamente il favore di tanti artisti, non però quello dei giovani Pissarro, Monet, Cézanne, Renoir, Sisley, con i quali aveva iniziato a trascorrere molte ore al Café Guerbois a Batignolles, non lontano dal suo studio.


H. Fantin-Latour. Un atelier aux Batignolles (1870)

In un dipinto di Henri Fantin-Latour, Un atelier aux Batignolles (1870), in cui viene riprodotto lo studio di Manet, accanto a lui, che sta dipingendo, compaiono alcuni di questi artisti ed assieme a loro Émile Zola, portavoce di questo nuovo movimento artistico. Zola, era amico di Cézanne, ed apprezzava la pittura, soprattutto quella nuova, trascurata o addirittura avversata dalla critica. Nel 1866 aveva scritto un articolo a favore di Manet, pubblicato nella Revue du Xxe siècle, e l'aveva difeso altre volte e, in cambio, questi gli aveva fatto un ritratto (1868).


E. Manet. E. Zola (1868)

Gli intrecci quindi, tra letteratura e pittura, non mancavano, e lo studio di Manet, soprattutto negli ultimi anni, quando la malattia lo costringeva ad una quasi totale immobilità, era divenuto un apprezzato luogo di ritrovo. Albert Robin quindi, quale critico letterario e amico degli artisti dell'epoca, era stato introdotto nello studio di Manet ed aveva potuto assistere alla creazione di quel capolavoro che è Un bar aux Folies-Bergère, ormai solo un ricordo, per l'artista, e suo vero testamento pittorico. Nello specchio, dietro alla cameriera, compare un uomo con i baffi: si tratta di un altro ospite dello studio, il pittore Gaston Latouche.


E. Manet. Un bar aux Folies-Bergère

Manet morì l'anno successivo. Nel frattempo anche i critici si erano ammorbiditi e, purtroppo solo negli ultimi anni di vita, e soprattutto dopo la sua morte venne riconosciuto il suo grande valore artistico.
Alcuni anni più tardi Albert Robin effettuò i viaggi in Istria e Dalmazia a bordo dello yacht Namouna (1896; 1898), discorrendo con gli altri ospiti delle qualità artistiche di Baudelaire e di molto altro. A bordo, nel 1896, anche il pittore J.L. Stewart, che realizzò alcuni dipinti per illustrare la vita di bordo.



J.L. Stewart. Autoritratto

Jeanniot, nel corso della prima guerra mondiale, testimoniò con le sue litografie la crudeltà con la quale i tedeschi trattavano le popolazioni dei territori occupati. Ne fece un libro intitolato Les crimes allemands edito nel 1917.





venerdì 24 marzo 2017

Albert Robin in viaggio in Dalmazia (II)




Valona (Rosaccio Giuseppe 1598)


Quando scrisse la relazione della sua crociera in Dalmazia a bordo dello yacht Namouna, Albert Robin, oltre a descrivere le località viste o visitate, fornì interessanti particolari sulla vita di bordo, che testimoniano di un modo di viaggiare molto particolare ed esclusivo per l'epoca (e non solo). 

"Al mattino, si fanno dei progetti per la giornata, poi ciascuno fa’ la sua toilette, il bagno o la doccia a seconda dei gusti. Alle otto si è pronti. Il pranzo è alle 11 e ½. Poi, dopopranzo, viene la felicissima ora dell’indispensabile siesta".

Benché fosse un medico, abituato ad ogni genere di disagi, come dimostra molto chiaramente la sua biografia, si rivela piuttosto sensibile verso la sporcizia ed i cattivi odori che si vedono e si sentono nei porti in cui attracca l'imbarcazione, e talvolta esprime giudizi negativi sulle località visitate, chiaramente influenzati da questi fattori. E se è vero che le impressioni che si riportano nel corso dei viaggi non rispecchiano quasi mai la realtà dei luoghi ma lo stato d'animo di coloro che ne fruiscono, certo questa relazione non può essere considerata una guida della Dalmazia di allora, ma semplicemente quello che è, cioè un resoconto di un passeggero colto su uno yacht di lusso. E' in quest'ottica che la relazione diventa allora ben più interessante, riuscendo a restituire con linguaggio vivo ed immediato, il rapporto con il viaggio in tutta la sua essenza. Albert Robin, in altre parole, ci fornisce la chiave per interpretare non solo e non tanto il paesaggio naturale e culturale con il quale viene a contatto ma, viceversa, la visione di coloro che in quel momento lo stanno osservando. 
Nel racconto del viaggio Robin rappresenta sé stesso sotto diverse prospettive: innanzitutto quella dell'ambiente culturale in cui vive quando si trova in Francia, a contatto con artisti ed intellettuali, ma anche quella dei lettori del New York Herald, ai quali dedica le sue recensioni, e quella, nella quale si trova immerso, della ricchezza e del lusso in cui vive il proprietario dello yacht, il discusso James Gordon Bennett. La sua personalità complessa si specchia nel racconto ed allora non bisogna meravigliarsi se non dimostra di amare Spalato, se dà per scontato il palazzo di Diocleziano, liquidandolo in poche parole, se si permette paragoni azzardati su qualche opera pittorica, o se appare tutto sommato più interessato alle persone che incontra che alle straordinarie architetture che vede. Questa è l'essenza e la particolarità della sua relazione che ci mostra un gruppo di persone che, confrontandosi su interessanti temi culturali, sorseggiano un buon vino, mentre lo yacht, rifugio rassicurante e meta finale di ogni giornata, passa davanti alle coste della Dalmazia e dell'Albania.




Durazzo (Vincenzo Coronelli 1688)


Albert Robin – Sedici giorni di crociera sulle coste della Dalmazia (1898) (II)

Estratto da “Mémoires de l’Académie des Sciences, Arts et Belles-Lettres de Dijon”, IV seire, t. VII, 1898. Corredato da 10 fotografie. pp. 7-61



Albert Robin - Sixteen Day Cruise on the Coasts of Dalmatia (1898)  (II)

Extract from “Mémoires de l’Académie des Sciences, Arts et Belles-Lettres de Dijon”, IV s., t. VII, 1898. Equipped with 10 photographs. pp. 7-61



(Traduzione dal francese: Daniela Durissini / French translation: Daniela Durissini)









15 settembre – 20° alle cinque del mattino; 23° alle sette.
Il mare è calmo. Una bruma lontana avviluppa la base delle montagne. Ritorno a Trau per visitare le rovine del castello. Non rimangono che i muraglioni che hanno cinque metri di spessore. Nel mezzo del mastio, un ingegnoso guardiano ha piantato dei cavoli che annaffia con l’acqua del vecchio pozzo storico, scavato al centro della torre. Qui e là dei resti di costruzione, degli ammassi di macerie e, in un angolo, la sinistra apertura di alcune catacombe. Lasciando le rovine andiamo a Bua attraversando il ponte rotante. La città non offre più niente d’interessante: dei palazzi antichi non restano che rovine. Ma a Trau stessa, si troveranno ancora dei magnifici pans de palais1.
Alle 9 e 27 partenza con la lancia per Spalato, dove arriviamo alle 11 e 15.
La baia è superba. Su uno sfondo di montagna grigio violetta, Spalato si staglia a semi cerchio avviluppata nella luce rosata che bagna tutta la costa Dalmata. Spalato è ancora il palazzo di Diocleziano, tante volte descritto; è una città nel palazzo d’un solo uomo. Presso la cinta, dietro alle vecchie mura, sono state costruite delle case; il tempio di Giove (p. 34) è una cattedrale. Diocleziano e la dominazione francese, con Marmont, ecco che cosa emerge qui dalla storia.




Rudolf von Alt. Spalato. Piazza del Duomo (1841)

Spalato è una città commerciale che non offre alcuna distrazione; una musica reggimentale suona la sera sulla piazza Marmont che diviene, per un’ora e mezza, un punto di ritrovo.
Si farà con interesse una passeggiata al mercato; là ci sono dei superbi tipi dalmati.
Tornando a bordo assistiamo all’imbarco di un reggimento austriaco a bordo dell’Austria; i soldati sono in disordine; gli ufficiali hanno una rigidità quasi prussiana.
Non si può restare a lungo nel porto di Spalato a causa dei cattivi odori che vi emanano; così si leva l’ancora durante il pranzo, ma un incidente di macchina ci costringe ad attraccare all’isola di Brazza2, in una graziosa baia a forma fi Y, la baia di Pucisa3. Sul fondo, davanti a noi, il villaggio con i tetti bianchi dà un’impressione di neve. Delle orde di bambini divallano da tutte le parti per assistere allo sbarco. Facciamo una piccola passeggiata nei dintorni, lungo il mare, senza incontrare niente che sia degno di menzione. Al ritorno, si attraversa un piccolo cimitero di paese, pieno di silenzio e di pace.
Siamo stati fortunati ad attraccare qui, poiché un grosso temporale s’è scatenato nella notte. La pioggia cade a raffiche sul ponte; il tuono è rabbioso, lo yacht scricchiola...neanche a dire di dormire questa notte.
17 settembre – Si parte alle cinque del mattino con una pioggia battente. Si passa il canale di (p. 35) Brazza, si arriva alla punta San Giorgio, tra l’isola di Lesina4 e la costa, si gira la punta di Sabbioncello5 per entrare nel canale di questo nome, dall’altra parte del quale si trova l’isola di Curzola6. All’estremità del canale, è come una polvere d’isole tra le quali si naviga per raggiungere il canale di Meleda7, celebre per il naufragio di san Paolo. Alle tre tocchiamo Ragusa, con 27°.
Le alte montagne dell’Erzegovina si stagliano all’orizzonte. Le cime alte sono coperte di neve. La città, circondata da una cinta fortificata, è costruita su un promontorio. La linea chiara delle fortificazioni e delle torri sembra sorvegliare una città addormentata (p. 36). Una montagna scura fa’ da sfondo al paesaggio. Da ogni parte di Ragusa questa montagna è coperta da una vegetazione superba e da villaggi policromi. Qui e là delle file d’immensi cipressi che fanno a gara con i pioppi. Si direbbe un paesaggio alla Gustave Doré.
Ci bagniamo nella rada, davanti all’isola di Lacroma8, poiché il porto è piccolo e senza fondo. Il vero porto di Ragusa è Gravosa9, dove andremo presto. Nel frattempo, quando si arriva in questo vecchio porto, difeso a sinistra da due enormi torri, a destra da un grande bastione, si ha ancora l’impressione di una grande forza svanita.
Entrando a Ragusa si è rapiti dalla storia. Si attraversano, mediante porte ogivali, due cinte di mura molto alte e si arriva nella strada chiamata “Stradon”, la grande via che attraversa tutta la città; è fiancheggiata da case uniformi a due piani, con delle botteghe nelle arcate del piano terra. Un’estrema pulizia regna dovunque. Da notare il palazzo della dogana, costruito nel 1520, con le sue arcate rinascimentali, il suo primo piano veneziano, ornato da San Biagio, il patrono di Ragusa, poi la statua di Orlando, la chiesa dei Francescani ed una graziosa fontana orientale.
Si esce dall’altra parte di Ragusa, attraverso una bella porta fortificata, coperta di edera, fiancheggiata da fossati riempiti di larici. Si giunge ad una piccola piazza che domina una baia rocciosa controllata de due forti. Una vettura ci conduce a Gravosa lungo una strada che assomiglia alla Corniche10, fiancheggiata da ville, da ulivi, da cactus, da aloe, da fichi d’India, da giganteschi oleandri. (p. 37) Delle terrazze fiorite scendono fino al mare. I grandi cipressi, le acacie rinsecchite gettano una nota scura su questo chiarore.
Il porto di Gravosa è un incanto. Niente può dare un’idea del colore dell’acqua, dei circhi montani.
La strada gira attorno al porto, poi segue un lungo braccio di mare che s’infossa nelle terre tra due montagne. La strada corre a fianco di alcune belle ville d’aspetto veneziano, con dei magnifici parchi.
Ritorno a Ragusa, visita del palazzo del Rettore, uno splendido edificio con una corte quadrata, circondata d’arcate. Guardare particolarmente la scalinata. (p. 38) Il palazzo è stato distrutto da un terremoto nel 1667 e ricostruito quasi interamente. Rimangono dei bellissimi pezzi del XIV e del XV secolo, tra cui un colonnato alcuni pezzi del quale sono romani.
Non dimenticare di visitare San Biagio, cattedrale dov’è esposta la statua in argento del santo.
Da vedere, nelle chiese, i tesori, due Tiziano ed un Raffaello. Ma quest’ultimo sembra non essere che una buona copia del Raffaello di Dresda11.
Nel tesoro della cattedrale, curiosa brocca d’ argento dorato, con un piatto coperto di serpenti, di lucertole ecc., lavoro fatto per Mattia Corvino.
Siamo troppo stanchi, la sera per andare in città; si gioca alla roulette. Alle 9 tutti sono coricati. Io ho dormito sul ponte. La luna imbianca il mare, le mura di Ragusa assumono un aspetto da sogno.



Anton Perko. Ragusa (1896)


18 settembre – Che caldo! Alle sei di mattina ci sono 25° all’ombra; all’una ce ne sono 30°.
Andiamo, di mattina, in città, da un commerciante di ninnoli. Vediamo dei bei ricami, delle scatole in oro Luigi XVI, un grazioso servizio in Vienna, ma siamo segnalati e ci chiedono dei prezzi inauditi.
Al mercato, delle uve, delle angurie, dei mercanti di ferraglie; presso uno di questi si vendono delle bottiglie vuote che si gettano ogni sera dal bordo dello yacht. Urbanità perfetta degli abitanti. Ogni persona si offre d’esserci utile.
Il costume è cambiato, le donne hanno dei grandi (p. 39) foulard bianchi sulla testa e la loro figura è spesso semicoperta: hanno degli stivali, dei grembiuli splendenti, e delle vesti colorate. Gli uomini hanno i pantaloni a sbuffo, all’orientale, di tinta scura, la giacca guarnita con lane colorate, una larga cintura che s’incurva sul davanti e che è al tempo stesso un magazzino ed un arsenale dove i coltelli e le pistole sono messi alla rinfusa. Sulla testa una calotta rossa o un turbante.



Pescatore dalmata


Appena arriviamo sullo Yacht per pranzare siamo invasi dai mercanti che vengono ad offrire ninnoli, stoffe. Riceviamo poi gli impiegati del telegrafo nel loro costume di gala, che dà loro l’ aria degli ufficiali di marina, poi due affascinanti polacche venute da Lemberg a Ragusa per i bagni di mare.
Ma questi bagni sono pessimi, mal posizionati, relegati in un angolo della spiaggia, all’angolo del porto, a causa dei pescecani che talvolta si mostrano nell’Adriatico. Il nostro pilota ci dice che per mille franchi non farebbe il bagno attorno al battello dove ogni mattina noi ci immergiamo nell’acqua. Dopo pranzato andiamo con la lancia a Ragusa Vecchia12, situata a cinque o sei miglia a sud di Ragusa.
Ragusa Vecchia è l’antica Epidauro, colonia corinzia che fu per molto tempo la principale città dell’Illiria, e che gli Avari distrussero nel 656. Resta poco d’Epidauro, qualche frammento scolpito e dei vaghi resti di porta.
Facciamo una lunga passeggiata su un’altura da dove si ha una vista ideale. Un po’ più lontano, la grotta (p. 40) di Esculapio, d’un aspetto assai strano. Che insieme di ricordi si agita in me davanti a tutte queste città, questo passato di cui ogni frammento che tocchiamo con il piede attesta lo splendore. E tuttavia, malgrado tante lotte, successi, sconfitte, sangue versato, malgrado tutto, nulla è cambiato nella natura delle cose.
Ci sono le vendemmie e c’è anche l’apertura della caccia. Dei carri da due buoi, carichi d’uve, scendono le colline. Dei cacciatori tornano con dei carnieri pieni di quaglie. Noi ne compriamo venti per 6 franchi. Sono, d’altronde, eccellenti.
Invece di rientrare allo yacht, ritorniamo a Ragusa. Il posto abituale degli incontri è una terrazza-caffè, a sinistra della porta. Questa terrazza, accanto al teatro, è frequentata soprattutto dagli ufficiali della guarnigione austriaca. Accanto si trova una fontana dove le donne vengono a riempire il loro orcio; è uno degli spettacoli più interessanti mettersi a guardare il va e vieni di queste donne attorno alla fontana. Costumi diversi, recipienti di forme differenti, atteggiamenti, chiacchiere.
É curioso che Ragusa sia la sola città del litorale che abbia resistito alla dominazione veneziana. Da nessuna parte, in effetti, si vede qui il leone alato di San Marco. Ragusa è stata, al contrario, la rivale della potenza veneziana e tutte e due sono cadute, nello stesso tempo, davanti a Bonaparte.
Da visitare ancora il chiostro dei Domenicani, con le sue costruzioni romane e gotiche. Il portale (p. 41) sud sembra essere la parte più antica del chiostro; è certamente dell’XI secolo.
Quando rientriamo a bordo il sole tramonta. Ragusa si sporge come un promontorio nero nel mare rosso; al di là, in un incendio, il sole è calato nel mare; da Ragusa all’orizzonte, a tutti gli orizzonti, il cielo ed il mare prendono fuoco e nel fiammeggiare, dei tratti neri, violetti, blu, delle nuvole arancioni e la notte che cala, lenta, dolce, ed oscura tutti i fulgori, in un tratto rossastro che sovrappone il suo bagliore morente alla linea blu-nera del mare.
Ma la luna, che si è levata, rischiara d’un colpo tutto ciò che può riflettere la sua luce ed ora è il cielo che è nero, mentre le alte mura di Ragusa imbiancano sull’orizzonte scuro.
19 settembre – Sempre una terribile calura. Si comprende, di fronte a questa temperatura, perché gli Orientali hanno fatto delle vie così strette. Il sole non vi penetra ed è la sola maniera possibile per sopportare questa costante canicola. La notte si dorme male a causa delle zanzare e del caldo. Il mattino, dalle cinque, lo yacht si sveglia, i marinai procedono alla pulizia quotidiana; si lucidano gli ottoni, l’acciaio dei cannoni; si dà la cera e si lava tutto ciò che si può lavare. Così alle cinque e mezza tutti sono riuniti sul ponte, negli abbigliamenti più svariati. Si prende il caffelatte, si fuma la pipa. Al mattino, si fanno dei progetti per la giornata, poi ciascuno fa’ la sua toilette, il bagno o la doccia a seconda (p. 42) dei gusti. Alle otto si è pronti. Il pranzo è alle 11 e ½. Poi, dopopranzo, viene la felicissima ora dell’indispensabile siesta.
Stamattina andiamo a terra di buon’ora, poiché lo yacht rolla terribilmente; nessuno ha potuto dormire. Alcuni hanno sul viso abbronzato delle tinte verdastre che sono le avvisaglie del mal di mare. Tutto ciò passa, a terra. Si ha un bel restare molto tempo in un paese benché piccolo, non lo si conosce mai abbastanza. Ad ogni discesa a terra troviamo un nuovo dettaglio, un angolo di strada, un ninnolo, un costume. Stamattina, delle donne passano in gonnellina bianca corta, con una larga guarnizione di lana ricamata, un grembiule multicolore, una sorta di mantello aperto sul davanti, che ha le forme di un cappotto da uomo; sulla testa un fazzoletto bianco, pieghettato, una estremità del quale pende sul dorso mentre l’altra forma una punta a cannoncini sulla fronte.
Oggi vediamo al palazzo rettorale il capitello di Esculapio che sormonta una delle colonne del palazzo e proviene da Epidauro dove pure ornava una colonna del tempio di Esculapio che la tradizione voleva nato in questa città.
Il dio, con una grande barba, l’aria ispirata, il libro aperto sul quale si posa la mano destra, la testa ornata da un turbante che ha la forma di un mezzo melone, appoggia la mano sinistra su una credenza, carica di vasi di farmacia, sotto la quale ci sono un forno e delle fiale.
La chiesa di Sant’Ignazio, rinascimento bastardo dell’epoca peggiore. Da notare anche la torre della (p. 43) Dogana ed il suo orologio, la chiesa di santa Maria Maggiore e la chiesa moderna dell’Annunciazione.
Cerchiamo dei resti di quella che è stata chiamata l’Atene slava, poiché Ragusa passa per esser stata un centro intellettuale. Non rimane niente. D’altronde, gli uomini notevoli che sono nati a Ragusa sono completamente sconosciuti al pubblico. Quanto a me, non sapevo il nome di nessuno di loro, se non quello di Baglivi.
I matematici Boscowitch e Ghetaldi, che fu amico di Cartesio, il poeta Giorgetti, Palmatitch, Bona, Guadalitch, il medico Baglivi, lo storico Banduri, tutti questi nomi non ci dicono nulla13. E (p. 44) non sembrano esserci stati in Dalmazia dei grandi pensatori l’opera dei quali domini un’epoca. Ciò che sembra più curioso è la poesia popolare, quella sì veramente slava nella sua espressione, ciò che significa delle cose di squisita tenerezza e di coinvolgimento. Il poco che ne ho potuto assaporare mi ha dato l’impressione composita delle rapsodie greche e dei trovatori del medioevo, con un aspetto soprannaturale che fa’ pensare alle leggende del Reno, come questa storia di Marko Kraliewitch14, il principe degli Eiduchi, che se ne va, sulle alte vette innevate dei Balcani, a chiedere al Félas15 il segreto della sua nascita.
Discutiamo di tutte queste cose nell’ora che precede la siesta; finita quella andiamo a visitare l’isola di Lacroma16, che chiude la baia di Ragusa. In lancia si arriva in cinque minuti ad un molo molto comodo, dove il mare è così chiaro che vi si vede il fondo ad una grande profondità; vi sono centinaia di ricci. Dal molo un cammino nel bosco conduce in dolce salita al castello, costruito sulle rovine di un antico chiostro fondato da Riccardo Cuor di Leone che fece naufragio a Lacroma, recandosi alla crociata. Il castello è stato la dimora dell’arciduca Massimiliano e, più tardi, dell’arciduca Rodolfo: quest’ultimo amava, si dice, la solitudine del vecchio chiostro,e l’anno che precedette la sua tragica fine egli vi venne ancora e non se ne andò che con dispiacere. Oggi il castello ha ripreso la sua destinazione originaria.
L’imperatore d’Austria, dopo la morte del figlio, ha donato l’isola ai Domenicani, che vi si sono installati da poco. Il priore ci riceve alla porta; è un uomo grande, energico; porta un cappello di paglia gialla (p. 45) e tiene in mano un grosso bastone.
Questo castello ha invero un aspetto di convento. Al piano terra, una sala immensa, divisa in due da alte arcate; al primo piano una lunga galleria, da ogni parte della quale si aprono le piccole porte delle celle; sono, o meglio erano, le camere. L’arredamento è rozzo; dei vecchi mobili senza carattere, dei calchi in gesso, dei busti in cattivo stucco, delle incisioni di quint’ordine in cornici casuali. All’estremità della galleria una torre; al suo centro una galleria scoperta, da dove si ha una vista superba (p. 46) sul mare. Nei giardini, come in tutta l’isola, la vegetazione è quella tipica dei paesi caldi. Delle palme, inviate dal Messico dall’imperatore Massimiliano crescono in terra; i fichi d’India sono giganteschi; le uve hanno l’aspetto della Terra Promessa. Lunga passeggiata nei giardini. Visita delle rovine del convento di Riccardo Cuor di Leone. Una grande torre quadrata e dei resti di un chiostro. Una terrazza all’estremità dei giardini verso il largo, in un ammasso di rocce, sulle quali il mare si spezza. Era la passeggiata favorita dell’arciduca Rodolfo: si può capire, poiché è difficile immaginare un luogo più poetico.
Il priore ci riporta al convento dov’è preparato uno spuntino: dell’uva, dei cocomeri rossi e del vino di Meleda, strano, con il sapore di pietra focaia. Una bandiera sventola sulla torre: oggi è il giorno dell’elezione del generale dei Domenicani, che ha luogo a Lione. Padre Montsabré è candidato, il suo concorrente è tedesco. Quest’ultimo ha le maggiori possibilità di vittoria, poiché l’ordine si volta dalla parte del sole.
Si riguadagna la lancia per un sentiero tortuoso, nei boschi che ricoprono l’isola; in un certo posto si cammina sotto una volta di oleandri alti come querce.
Ritorno a Ragusa per acquistare delle provviste. Cena allegra a bordo. Dopo cena visita del priore dei Domenicani, accompagnato da un giovane studente di diritto, di Vienna, che passa le sue vacanze a Lacroma. Il padre ci porta sei bottiglie del suo vino. Rimane estasiato sullo yacht, l’armonia della tavola, lo splendore delle luci elettriche accese dovunque (p. 47). Gli offriamo del vino di Tenerife del 1820 e, poiché la chiesa di Lacroma è povera, il nostro anfitrione gli promette un calice d’oro.
Serata piacevole che si prolunga fino alle 10. Per noi è tardi.
2617 settembre – Preparativi di partenza per Corfù. 180 miglia marine, ovvero 20 ore circa. Si torna a Ragusa per le provviste; è domenica; uscita dalla messa; tutti i costumi del paese sono in vista, così luminosi sotto il sole. Ci sono 27° a mezzogiorno.
Il padre domenicano ci viene a salutare a bordo; (p. 48) ci porta del tabacco d’Erzegovina, biondo e profumato. Ci dà il suo biglietto così redatto:
Ct. Dalmacijo Franctovic
Nadslojnik Dominicanskoga Samostana na
Zokruum Dubrovnik
Alle cinque della sera si leva l’ancora. La costa sparisce ben presto. Intuiamo in lontananza le bocche di Cattaro18, il lago di Scutari19, Dulcigno20, la baia di Dinazzo21, Il mare è calmo fino a mezzanotte. Allora il vento si leva e lo yacht si mette a ballare. Impossibile dormire. Si passa la notte sul ponte. Una goletta bianca appare all’orizzonte, tutte le vele spiegate. La luna rischiara la notte.


Perasto (all'interno delle Bocche di Cattaro)

21 settembre – Alle cinque un giorno pallido. La costa appare; è il capo Linchetta22 dentro al quale si trova la baia di Valona23. Abbiamo appena lasciato a sinistra il faro di Sasero24, sull’isola omonima che chiude la baia di Valona.
A destra alcune isole emergono dal mare; si tratta di Merlera, Fano, Samatraki25. Sul fondo, davanti a noi, le montagne formano delle quinte: le prime, scure, le altre, pù alte, chiare, le ultime pallide come una nuvola. Entriamo nel canale nord tra Corfù26 e la costa. A destra dell’entrata c’è un isolotto, Tignoso27, sul quale si trova un fanale rosso.
L’arrivo a Corfù è superbo e dà un’impressione splendida. Nella rada immensa un isolotto spoglio, il cui punto più alto, coperto d’un forte smantellato dagli inglesi quando hanno lasciato l’isola per restituirla ai Greci, al momento dell’ascesa al trono (p. 49) del re Giorgio. Poi, dietro all’isolotto, la città tra due forti, di cui quello sulla punta della rada è stato così spesso riprodotto in tutti i racconti di viaggio. Tra i due forti, delle case di diversi piani, con delle imposte verdi, ma senza le tonalità che ci avevano affascinati a Sebenico ed a Ragusa. In lontananza, delle montagne coperte d’una bruma violetta. Alle undici si getta l’ancora tra l’isolotto fortificato e la città. Nello stesso tempo arriva lo yacht dell’imperatrice d’Austria, che ci ha seguito per una parte della notte. 




Elisabetta d'Austria



L’imperatrice possiede qui una villa, nella quale si stabilirà per un mese. Questa villa28 è in una posizione magnifica: domina una baia situata dietro la rada che sembra aver servito un tempo da porto alla città.
Non conosco più grandi ammiratori che i viaggiatori ed i poeti. Che cosa non hanno detto su Corfù, da Omero che vi vantava i giardini di Alcinoo, fino al nostro amico Bourget29 che vi ha consacrato delle pagine piene di ammirazione! A leggere le descrizioni che ho trovato nella magnifica biblioteca di viaggio dello yacht, questo sarebbe niente meno che il Paradiso terrestre.
Ci aspettiamo di trovare dunque uno di quegli angoli benedetti della terra in cui tutto concorre a donare un’impressone di felicità, in cui la vita sembra migliore, dove si vorrebbe abitare sempre come in un luogo di sogni da molto tempo accarezzato, infine realizzato. Così è con vera impazienza che attendiamo il momento in cui la fine del pranzo ci permetterà di andare a terra.
Che delusione! Sul molo dove sbarchiamo (p. 50) si accalca una popolazione eteroclita nella quale non vi è che un elemento comune: la sporcizia. Dei Greci in gonnella bianca, degli ebrei sudici, dei pope in cappello alto, in sottana puzzolente, tutta un’armata di guide illegali, di bambini cenciosi, si precipitano incontro a noi. Scelgo una guida che parla soltanto italiano e inglese, a caso, al fine di sbarazzarmi dell’orda che mi circondava, e partiamo alla volta della città. La guida mi chiede dieci franchi, ed io gliene offro cinque, lui rifiuta; me ne vado, lui mi corre appresso ed accetta.
Innanzitutto, ciò che colpisce di Corfù è l’inesprimibile odore che sprigiona dalle strade, dalle case, dagli abitanti. Dico inesprimibile poiché non conosco aggettivi, né termini di comparazione che possano render conto di ciò che si sente all’angolo di alcuni incroci.
Delle strade sporche, dovunque mucchi di meloni gialli e verdi, di pomodori, di fichi d’India, di uve enormi, di gente seduta davanti alla porta di pietosi caffé; tutto ciò è pittoresco, e le tinte crude di questi ammassi di vettovaglie non mancano di colpire l’occhio, ma bisognerebbe vedere tutto ciò da molto lontano e non avvicinarsi che al limite delle sensazioni olfattive. Aggiungete a questo una calura pesante, implacabile, dei mulinelli di polvere, un’aria infuocata che distrugge le membra ed intorpidisce il pensiero ed avrete un’idea degli incantamenti di Corfù.
Almeno potessimo rinfrescarci. Non nei caffè, non vi si beve che mastica (p. 51), delle limonate innominabili o della birra allo zenzero. Ripieghiamo su della frutta ed acquistiamo dell’uva; è qui che la guida diventa utile per fissare il prezzo; ora, ci chiedono 3 franchi per una libbra d’uva, e ciò in piena stagione, in piena vendemmia. L’avevamo capito: a Corfù le guide ed i commercianti si mettono d’accordo per depredare i viaggiatori.
Vogliamo lasciare questo puzzo e cercare, fuori città, un po’ d’aria, di frescura. La guida chiama una vettura, una vettura attaccata a cavalli apocalittici, magri, che cedono ad ogni passo, incapaci anche del trotto più lento. Partiamo, attraversiamo un vecchio rudere della cittadella veneziana, con il leone di San Marco sulla porta e ci dirigiamo verso la montagna. Una strada, o piuttosto una buca polverosa, fiancheggiata da aloe, e fichi d’India, da cactus imbiancati... orrendo! Da ogni parte della strada dei verzieri con dei begli ulivi, qua e là degli oleandri. Sudiamo copiosamente sotto questo sole di fuoco, i nostri polmoni sono seccati da un’inesorabile polvere, e la guida ci fa ammirare nel suo gergo gutturale, lo splendore della vegetazione e la bellezza della natura corfiota. Andiamo al Palazzo reale, alla Villa reale; vorrebbe condurci al cannone ed alla tomba di Alcinoo, ma non ne ha il modo, soccombiamo e chiediamo di tornare a bordo. Siamo stati un’ora in vettura; la guida ed il conducente entrano in un conciliabolo dal quale risulta che dobbiamo 7 franchi per quest’ora. Se mai andate a Corfù, non fidatevi di una guida che porta una barba grigia (p. 52) e vi mostra dei certificati di turisti attestanti che egli è la miglior guida di Corfù.
Non c’è niente di bello in tutta la città se non la grande piazza dove soffia un po’ d’aria, calda, è vero, ma almeno è aria. D’altronde questa piazza è vuota e triste come il resto della città.
Quando rientriamo a bordo, ciascuno scambia le proprie impressioni. Gli uni iniziano con l’entusiasmo d’obbligo, ma poco a poco si cede e siamo tutti concordi sull’immensa delusione che Corfù ha prodotto in noi.
Nella notte un violento temporale, il mare è agitato; è impossibile dormire nelle cabine, dove ci sono 35°, né sul ponte, dove si rovescia l’acqua.
22 settembre – Questa mattina il cielo è tutto nero, dei brandelli di burrasca passano attorno a noi. La calura non è cambiata; è pesante quanto ieri, non si può fare un passo senza essere in un bagno di sudore.
Corfù è mal collegato al continente. Non ci sono corrieri se non il lunedì, il giovedì ed il venerdì; non si parte se non il mercoledì, il sabato e la domenica. Il telegrafo vi funziona in modo incerto. Il burro è detestabile, il pane assomiglia ad una spugna; non vi è nulla di rimarchevole se non la frutta, l’uva specialmente, che è eccellente.
La calura è tale che fino alle quattro della sera non si può scendere a terra. Infine fà meno caldo e possiamo partire. Due vetture ci attendono sul molo. Lasciamo molto velocemente la città ammorbata, guadagniamo la spianata sempre vuota e seguiamo una bella passeggiata alberata, (p. 53) con un molo sulla baia. Per questa strada dobbiamo andare al Cannone30, la principale passeggiata, lo scopo dei comuni turisti. Bella strada tra eucalipti, aranci, limoni, foreste di ulivi dal tronco tortuoso, enormi, cactus, una vegetazione davvero bella, ma bruciata disperatamente dal sole, corrosa dalla polvere. Arriviamo al Cannone, è un piccolo rilievo che domina la baia di Kalakiopoulo31; è là che la leggenda pone i giardini vantati d’ Alcinoo. 




Simone Pomardi. Porto Vecchio e giardini di Alcinoo a Corfù (1820)


Ai piedi del monticello il mare, o meglio, una baia immensa, dall’acqua profonda, disseminata di capanni per la caccia all’anatra, circondata da montagne; a sinistra il mare che sembra senza limiti. L’entrata di questa baia è sbarrata da due isolotti: uno è collegato alla terra da una sottile striscia di ciottoli32, l’altra, più lontana, grande come una mano, è coperta d’alti cipressi33; è là che Ulisse approdò dopo il suo naufragio; è là che si trova la tomba di Alcinoo. Strano come si è commossi da questi ricordi; si cerca una traccia di queste leggende, traccia mai cancellata, e però sono le stesse rive, è lo stesso mare: forse il divino Ulisse approdò realmente in questo isolotto ed i suoi occhi videro questo paesaggio che i secoli trascorsi non hanno cambiato. Ed il mio pensiero se ne va più lontano d’ Ulisse, risale a Nettuno che, può darsi, sia stato un essere reale, poiché Alcinoo pretendeva di discendervi, che regnò su questi Feaci, in tempi preistorici e che mi sembra di poter evocare attraverso l’immaginazione, nella solitudine di questa baia.
Come sembra lunga la storia di quest’isola! (p. 54) Proprio i suoi diversi nomi attestano l’antichità delle generazioni che vi hanno calpestato il suolo e la di cui polvere rivive nella sua vegetazione o nella terra così fertile. Dreparium, Feacia, Scheria, Corcira, Corfù! Che ruolo ha giocato nella storia della Grecia. I Corciresi furono gli alleati di Mummio, quando devastò Corinto. Flaminio vi concentrò le sue truppe prima della sua campagna contro Filippo. Belisario, Totila, Roberto il Guiscardo, Alessio Comneno, Carlo d’Angiò hanno calpestato il suo suolo. Poi Venezia vi ha piantato il suo stendardo e messo il leone alato su tutti i monumenti per attestare il suo dominio. Il maresciallo Schulembourg l’ha difesa contro i Turchi ed il sultano Achmet III. Corfù è stata francese, inglese, russa, repubblica indipendente. Da tutto ciò, da questo passato eroico emana un sentore di polvere e di guerra che fà contrasto con il silenzio degli orizzonti e la calma del mare.
Rientriamo a Corfù; io ho come un’emozione nel cuore; vorrei veder spuntare qualche frammento dei tempi eroici, ma i grandi ulivi passano, gli odori di eucalipto e d’arancio ci portano in altri cammini del sogno, e la sera scende quando arriviamo sulla spianata.
Al centro un padiglione decorato con dei meloni e dei cocomeri policromi, oro e verde; dei musicanti del reggimento greco che tengono qui la guarnigione suonano con brio qualche motivo militare. Attorno al padiglione dei nugoli di bambini che ballano. Poi, qui e là, qualche gruppo raro che passeggia su e giù nella frescura appena iniziata; è l’ora in cui si esce (p. 55) dalle case, poiché durante la giornata l’immensa calura confina gli abitanti nel fondo delle case ben chiuse. La brillante sfilata dei costumi, delle eleganze di cui parlano i viaggiatori, consiste semplicemente in qualche soldato greco, vestito di bianco o delle tuniche scure degli ufficiali, dei bambini, dei rari turisti in flanella e tra gli abitanti niente che valga la pena di essere preso in considerazione. Il tipo femminile è poco interessante; le donne sono mal vestite, senza distinzione. Se non fosse per le albanesi, in gonna bianca plissettata, dal dorso coperto di pelli di montone ondeggianti che danno una nota chiara, tutto sembrerebbe banale e più brutto da vedere che la piazza pubblica dove si fa musica nell’ultima città dell’ultima provincia d’Europa.
Tuttavia io conservo negli occhi, rientrando a bordo, un ricordo dal quale non posso staccarmi; è ancora un tramonto. Ecco nell’Adriatico la cosa veramente originale, poiché è ogni giorno mutevole, sempre nuova; è l’aspetto del matrimonio del mare con il cielo, nelle ore notturne di luna, o quando il sole sorge dal mare e vi cala.
Questa sera, da una nuvola tutta nera, il sole lancia dei raggi d’oro sul mare, attraverso un buco aperto. Non lo si vede ma è come una gloria che scende dall’alto e che abbraccia con un polverio d’oro e di fuoco la montagna ed il mare.
Serata a bordo. Non c’è niente da vedere né da fare a Corfù la sera. Si discute di poesia; tutti vi passano. Ma Baudelaire sembra restare e ciascuno (p. 56) è d’accordo nel trovare che La servante au grand coeur34 è una delle vette della poesia immortale. Bazziche, solitari. Sono le dieci. Al rollio dolce della Namouna, ognuno si addormenta in un dondolio.
23 settembre – Tempo coperto. Sempre 25° alle cinque del mattino. Nel divenire azzurro del mattino Corfù si sveglia. Veramente, l’impressione diviene migliore man mano che si rimane per più tempo, e non fosse per gli odori orribili da attraversare, la terra attira. Com’è curioso vedere che tutto ciò che vi è di buono nell’isola è stato fatto dai Francesi durante la loro occupazione; è al generale Donzelot che li comandava che si deve la spianata con la sua passeggiata lungo la banchina sul mare e le strade dell’isola tutte ben tracciate e che, benché non vi sia stata mai fatta manutenzione, sono ancora migliori che in molti altri paesi.
Una guida viene a bordo a darci una nota sulle principali escursioni da fare. Le trascrivo testualmente:
Castrades, Palazzo Reale e Cannone, 1h e ½, andata e ritorno, 5 franchi; Gastauri, Palazzo reale dell’imperatrice, 2h ½, andata e ritorno, 9 franchi; Peleca35, vista molto pittoresca, 3 h, andata e ritorno, 10 franchi; Benizza36, domina il mare, 3 h e 1/2 , andata e ritorno 12 franchi; Dotamo37, la torre, 1 h e ½, andata e ritorno, 8 franchi; Santi Deca, 2h e ½, andata e ritorno 11 franchi; Dalescastrizza38, monastero, vecchio castello, 6h, andata e ritorno, 20 franchi.
Ma noi ci accontentiamo della passeggiata dei giorno precedenti. Siamo sfiancati dalla calura, dall’assenza d’aria, dalla polvere, e decidiamo (p. 57) di andare, dopo pranzato, attraverso il Canale del Nord, a gettare l’ancora in uno dei golfi dell’Albania.
In effetti ci vuole un’ora appena per arrivare in un’ansa della baia di Pagana sulla costa d’Albania. Che cambiamento. Un tempo fresco, una brezza che accarezza come un bacio, dei soffi odorosi che giungono da terra. Si getta l’ancora all’estremità della baia, in una sorta di lago, tranquillo e così blu, circondato da montagne scoscese che scendono ripide nel mare; è un angolo ignorato del mondo dove sembra che alcun vascello si sia mai avventurato. Ma, ispezionando i luoghi, si vedono i resti di un bersaglio su una delle montagne, e la nostra guida ci racconta che un vascello da guerra inglese, il Colossus39, è venuto recentemente in questa baia per farvi esercitazioni di tiro.
Che silenzio! Che pace profonda! Ecco un luogo dove va bene riposarsi dalla lotta. Un canto molto lento, monotono, viene a tratti attraverso la montagna e sulla cresta appare un pastore molto vecchio, un pastore da leggenda. Si siede su un blocco di roccia e ieratico, il mento sulla mano, guarda lo yacht fissamente come una stranezza.
La guida ci ha condotti qui per farci cacciare. Una jole a quattro remi40 ci porta a terra. Saliamo la montagna, nel mezzo delle rocce, dei cardi, delle piante flessibili, dal grosso bulbo di cui lo stelo, unico e ondeggiante porta in cima come una lancia di piccoli fiori bianchi. Alcuni rari arbusti spinosi verdeggiano negli anfratti delle rocce. Queste rocce sono magnifiche; è una sorta di marmo con delle vene (p.58) rosate. Ci sono molti serpenti, degli insetti di ogni genere e delle enormi tartaruge. Sulla cima della montagna appare da una parte il mare con le coste di Corfù in lontananza; dall’altra la baia di Pagana con la Namouna, tutta bianca, come un grande uccello posato sul mare. Ridiscendiamo presso una caverna immensa, d’un centinaio di metri di profondità, che si apre sul bordo del canale come un baratro spalancato; è un rifugio di piccioni che prendno il volo da tutte le parti. Ma è troppo tardi e noi non ne portiamo indietro che cinque.
Ritorno dall’altro versante della montagna, coperti di sudore, estenuati da questa camminata nelle rocce taglienti e la discesa a picco fino al canotto che ci attendeva. Ma la giornata è stata superba, quest’aria viva ci ha rinvigoriti e ceniamo con un formidabile appetito.
La sera, temporale terribile, i lampi abbracciavano tutta la baia; dei tuoni facevano tremare la Namouna e se ne andavano ripercossi in lunghi echi. Un diluvio, dei torrenti d’acqua; si son dovuti chiudere gli oblò e dormire in una calura umida di 35°.
24 settembre – Anche stamattina alle cinque tutti sono sul ponte. Si tratta di tornare al buco dei piccioni prima di giorno, ma arriviamo troppo tardi ed essi sono già andati via. E tuttavia le primi luci del giorno appaiono solamente ad oriente. Alle sette siamo di ritorno, il temporale ricomincia, il cielo è tutto nero, i (p. 59) tuoni, in quest’ansa chiusa, sono veramente impressionanti.
All’una lasciamo la baia di Pagana, dopo aver preso ancora cinque tartarughe sulla monatgna, che ne è letteralmente coperta, ed andiamo ad esplorare degli altri buchi di piccioni situati sulla costa d’Albania, che è letteralmente forata; è un viaggio di due ore con una velocità di dieci nodi.
Un fiume che si getta nel mare attraverso due bocche dà a questo degli strani aspetti. Dapprima ci sono delle macchie blu in un’acqua color oliva; più lontano il tono oliva è continuo e diventa giallo oro; poi un nuovo degradare di toni nello stesso senso; poi infine una linea blu come tracciata con la squadra; è di nuovo il mare puro. Le montagne viola formano, contrastanti, più linee di cime sovrapposte. Tra le due bocche del fiume, ammasso di colline che un’illusione ottica fà sembrare al di sopra del livello del mare. Che gamma di toni, dall’oro del mare fino alle montagne nere, blu, violette!
Ci imbarchiamo sulla lancia. Alla grande due miglia, fino alle caverne. Su uno scoglio un gruppo di orche marine che scappano troppo presto perché possiamo raggiungerle. Poi le caverne, tre grandi sotterranei nella roccia scoscesa, nelle quali il mare si riversa con un rumore terribile. La guida ed un marinaio vi si addentrano su di una piccola scialuppa; migliaia di uccelli ne escono ma noi siamo sei fucili: è troppo; ci ostacoliamo a vicenda. Ho la gioia di vedere tutti i piccioni scappare. (p. 60) Rientrati a Corfù alla cinque; si va alla posta dove si trovano lettere di dieci giorni. C’è bisogno di due uomini per portare la posta nei sacchi. Tutta la serata, a bordo, si spulcia la corrispondenza, si leggono vecchi giornali; ci si meraviglia di ogni fatto accaduto durante l’assenza. Bisognerebbe partire questa sera, ma il mare è in burrasca.
25 settembre - Partenza alle cinque, mare violento. A mezzogiorno scoppia la tempesta; nulla sta più sul ponte; soffia un vento terribile; delle onde immense sollevano la Namuona che scricchiola da tutte le parti; delle lame enormi spazzano il ponte. L’ ancora di fortuna è strappata dalla poppa. Sto così male che perdo la nozione del pericolo, steso sul ponte, sballotato come un pacco dal rollio che porta via tutto ciò che non è legato. I lampadari del salone si rompono e crollano con un fracasso sinistro. Tutto è nero, acqua e cielo. Ma l’acqua sbianca attorno a noi per la schiuma delle onde. Sarebbe uno spettacolo superbo se il mal di mare non annientasse ogni facoltà. Del rumore, del vento, dei colpi delle onde, degli scricchiolii dello scafo. I cani di bordo sono spaventati e si rifugiano negli angoli. E a causa di un’avaria della macchina procediamo a sei nodi.
Che notte! Sbattuti qua e là, inerti, scossi da render l’anima in un’oscurità assoluta squarciata dal grido della sirena, così lugubre.
26 settembre – ma appare il giorno. Il vento s’attenua, il sole, molto pallido, molto scialbo, sorge dalle nubi, il mare ridiventa blu. Si tinge d’argento fino all’orizzonte. A mezzogiorno la calma ritorna; siamo (p. 61) così prostrati da queste ventiquattr’ore di nausea che nessuno dice niente.
27 settembre – Tempo superbo, mare calmo; l’orizzonte è violetto, il mare d’un blu azzurro scuro. Ecco Venezia in lontananza.


Francesco Grandi. Venezia


1 Questa espressione, già incontrata in precedenza, si riferisce alle teste scolpite poste sopra i portali dei palazzi, che sovente ne simboleggiavano le guardie armate.
2 Brač
3 Pučišča
4 Hvar
5 Pelješac
6 Korčula
7 Mljet
8 Lokrum
9 Gruž
10 Noto percorso, nella Francia meridionale, che unisce Nizza a Mentone, passando per il Principato di Monaco
11 Si tratta della Madonna Sistina conservata nella Pinacoteca di Dresda
12 Cavtat
13 Alcuni tra i nomi citati sono abbastanza noti: Ruggero Giuseppe Boscovich (Ragusa 1711-Milano 1727) e Marino Ghetaldi (Ragusa 1568-1626), matematici; Giorgio Baglivi (Ragusa 1668-Roma 1701), medico; Anselmo Banduri (Ragusa 1671-Parigi 1743), numismatico e storico.
14 Marko Kraljevic (1335-1395) re serbo entrato nella leggenda e celebrato dall’epica serba, macedone e bulgara
15 Probabilmente si riferisce all’incontro di Marko Kraljevic con la Vila Ravijojla, una sorta di ninfa che si credeva abitasse le montagne della Serbia, cfr. Low David Halyburton, The Ballads of Marko Kraljevic, Cambridge University Press, Cambridge 1922, pp. 21-24
16 Lokrum
17 Errore materiale, forse presente già nel testo. In realtà si tratta del 20 settembre
18 Kotor (Montenegro)
19Skodra (Albania)
20 Ulcinj (Montenegro)
21 Si tratta di Durazzo, oggi Durrës (Albania)
22 Limanit (Albania)
23 Vlorë (Albania)
24 Sazon (Albania)
25 Ereikoussa, Othanoi, Mathraki
26 Kerkira
27 Ptychia
28 Si tratta dell’Achilleion, fatta costruire da Elisabetta d’Austria, presso il villaggio di Gastouri, a sud della città
29 Paul Bourget (Amiens 1852Parigi 1935), scrittore e saggista francese
30 Kanoni
31 Laguna di Chalkiopoulos, anche baia di Chelaios
32 Oggi Monastero di Vlaherna
33 Pontikonissi
34 Si riferisce alla poesia La servante au grand coeur dont vous étiez jalouse, compresa nella raccolta Les Fleurs du mal. Per una traduzione in italiano si veda ad esempio Charles Baudelaire, I fiori del male, Giunti, Firenze/Milano, 2007, ora anche in edizione digitale (2010)
35 Pelekas
36 Benitses
37 Potamos
38 Palaiokastrites
39 Si tratta della prima di una serie di potenti navi da guerra inglesi (1882).

40 Imbarcazione particolare, generalmente utilizzata per il canottaggio, provvista appunto di quattro remi, larga più delle consuete imbarcazioni utilizzate per questo sport e con caratteristiche di notevole stabilità in mare; cfr. Giorgio Croppi, Il canottaggio. A remi, a vela ed a vapore, Ulrico Hoepli, Milano 1898