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Valona (Rosaccio Giuseppe 1598) |
Quando scrisse la relazione della sua crociera in Dalmazia a bordo dello yacht Namouna, Albert Robin, oltre a descrivere le località viste o visitate, fornì interessanti particolari sulla vita di bordo, che testimoniano di un modo di viaggiare molto particolare ed esclusivo per l'epoca (e non solo).
"Al mattino, si fanno dei progetti per la giornata, poi ciascuno fa’ la sua toilette, il bagno o la doccia a seconda dei gusti. Alle otto si è pronti. Il pranzo è alle 11 e ½. Poi, dopopranzo, viene la felicissima ora dell’indispensabile siesta".
Benché fosse un medico, abituato ad ogni genere di disagi, come dimostra molto chiaramente la sua biografia, si rivela piuttosto sensibile verso la sporcizia ed i cattivi odori che si vedono e si sentono nei porti in cui attracca l'imbarcazione, e talvolta esprime giudizi negativi sulle località visitate, chiaramente influenzati da questi fattori. E se è vero che le impressioni che si riportano nel corso dei viaggi non rispecchiano quasi mai la realtà dei luoghi ma lo stato d'animo di coloro che ne fruiscono, certo questa relazione non può essere considerata una guida della Dalmazia di allora, ma semplicemente quello che è, cioè un resoconto di un passeggero colto su uno yacht di lusso. E' in quest'ottica che la relazione diventa allora ben più interessante, riuscendo a restituire con linguaggio vivo ed immediato, il rapporto con il viaggio in tutta la sua essenza. Albert Robin, in altre parole, ci fornisce la chiave per interpretare non solo e non tanto il paesaggio naturale e culturale con il quale viene a contatto ma, viceversa, la visione di coloro che in quel momento lo stanno osservando.
Nel racconto del viaggio Robin rappresenta sé stesso sotto diverse prospettive: innanzitutto quella dell'ambiente culturale in cui vive quando si trova in Francia, a contatto con artisti ed intellettuali, ma anche quella dei lettori del New York Herald, ai quali dedica le sue recensioni, e quella, nella quale si trova immerso, della ricchezza e del lusso in cui vive il proprietario dello yacht, il discusso James Gordon Bennett. La sua personalità complessa si specchia nel racconto ed allora non bisogna meravigliarsi se non dimostra di amare Spalato, se dà per scontato il palazzo di Diocleziano, liquidandolo in poche parole, se si permette paragoni azzardati su qualche opera pittorica, o se appare tutto sommato più interessato alle persone che incontra che alle straordinarie architetture che vede. Questa è l'essenza e la particolarità della sua relazione che ci mostra un gruppo di persone che, confrontandosi su interessanti temi culturali, sorseggiano un buon vino, mentre lo yacht, rifugio rassicurante e meta finale di ogni giornata, passa davanti alle coste della Dalmazia e dell'Albania.
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Durazzo (Vincenzo Coronelli 1688) |
Albert
Robin – Sedici giorni di crociera sulle coste della Dalmazia (1898)
(II)
Estratto da “Mémoires
de l’Académie des Sciences, Arts et Belles-Lettres de Dijon”, IV
seire, t. VII, 1898. Corredato da 10 fotografie. pp. 7-61
Albert Robin - Sixteen Day Cruise on the Coasts of Dalmatia (1898) (II)
Extract from “Mémoires de l’Académie des Sciences, Arts et Belles-Lettres de Dijon”, IV s., t. VII, 1898. Equipped with 10 photographs. pp. 7-61
(Traduzione dal francese: Daniela Durissini / French translation: Daniela Durissini)
15
settembre – 20° alle cinque del mattino; 23° alle sette.
Il
mare è calmo. Una bruma lontana avviluppa la base delle montagne.
Ritorno a Trau per visitare le rovine del castello. Non rimangono che
i muraglioni che hanno cinque metri di spessore. Nel mezzo del
mastio, un ingegnoso guardiano ha piantato dei cavoli che annaffia
con l’acqua del vecchio pozzo storico, scavato al centro della
torre. Qui e là dei resti di costruzione, degli ammassi di macerie
e, in un angolo, la sinistra apertura di alcune catacombe. Lasciando
le rovine andiamo a Bua attraversando il ponte rotante. La città non
offre più niente d’interessante: dei palazzi antichi non restano
che rovine. Ma a Trau stessa, si troveranno ancora dei magnifici pans
de palais.
Alle
9 e 27 partenza con la lancia per Spalato, dove arriviamo alle 11 e
15.
La
baia è superba. Su uno sfondo di montagna grigio violetta, Spalato
si staglia a semi cerchio avviluppata nella luce rosata che bagna
tutta la costa Dalmata. Spalato è ancora il palazzo di Diocleziano,
tante volte descritto; è una città nel palazzo d’un solo uomo.
Presso la cinta, dietro alle vecchie mura, sono state costruite delle
case; il tempio di Giove (p. 34) è una cattedrale. Diocleziano e la
dominazione francese, con Marmont, ecco che cosa emerge qui dalla
storia.
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Rudolf von Alt. Spalato. Piazza del Duomo (1841) |
Spalato
è una città commerciale che non offre alcuna distrazione; una
musica reggimentale suona la sera sulla piazza Marmont che diviene,
per un’ora e mezza, un punto di ritrovo.
Si
farà con interesse una passeggiata al mercato; là ci sono dei
superbi tipi dalmati.
Tornando
a bordo assistiamo all’imbarco di un reggimento austriaco a bordo
dell’Austria; i soldati sono in disordine; gli ufficiali hanno una
rigidità quasi prussiana.
Non
si può restare a lungo nel porto di Spalato a causa dei cattivi
odori che vi emanano; così si leva l’ancora durante il pranzo, ma
un incidente di macchina ci costringe ad attraccare all’isola di
Brazza,
in una graziosa baia a forma fi Y, la baia di Pucisa.
Sul fondo, davanti a noi, il villaggio con i tetti bianchi dà
un’impressione di neve. Delle orde di bambini divallano da tutte le
parti per assistere allo sbarco. Facciamo una piccola passeggiata nei
dintorni, lungo il mare, senza incontrare niente che sia degno di
menzione. Al ritorno, si attraversa un piccolo cimitero di paese,
pieno di silenzio e di pace.
Siamo
stati fortunati ad attraccare qui, poiché un grosso temporale s’è
scatenato nella notte. La pioggia cade a raffiche sul ponte; il
tuono è rabbioso, lo yacht scricchiola...neanche a dire di dormire
questa notte.
17
settembre – Si parte alle cinque del mattino con una pioggia
battente. Si passa il canale di (p. 35) Brazza, si arriva alla punta
San Giorgio, tra l’isola di Lesina
e la costa, si gira la punta di Sabbioncello
per entrare nel canale di questo nome, dall’altra parte del quale
si trova l’isola di Curzola.
All’estremità del canale, è come una polvere d’isole tra le
quali si naviga per raggiungere il canale di Meleda,
celebre per il naufragio di san Paolo. Alle tre tocchiamo Ragusa, con
27°.
Le
alte montagne dell’Erzegovina si stagliano all’orizzonte. Le cime
alte sono coperte di neve. La città, circondata da una cinta
fortificata, è costruita su un promontorio. La linea chiara delle
fortificazioni e delle torri sembra sorvegliare una città
addormentata (p. 36). Una montagna scura fa’ da sfondo al
paesaggio. Da ogni parte di Ragusa questa montagna è coperta da una
vegetazione superba e da villaggi policromi. Qui e là delle file
d’immensi cipressi che fanno a gara con i pioppi. Si direbbe un
paesaggio alla Gustave Doré.
Ci
bagniamo nella rada, davanti all’isola di Lacroma,
poiché il porto è piccolo e senza fondo. Il vero porto di Ragusa è
Gravosa,
dove andremo presto. Nel frattempo, quando si arriva in questo
vecchio porto, difeso a sinistra da due enormi torri, a destra da un
grande bastione, si ha ancora l’impressione di una grande forza
svanita.
Entrando
a Ragusa si è rapiti dalla storia. Si attraversano, mediante porte
ogivali, due cinte di mura molto alte e si arriva nella strada
chiamata “Stradon”, la grande via che attraversa tutta la città;
è fiancheggiata da case uniformi a due piani, con delle botteghe
nelle arcate del piano terra. Un’estrema pulizia regna dovunque. Da
notare il palazzo della dogana, costruito nel 1520, con le sue arcate
rinascimentali, il suo primo piano veneziano, ornato da San Biagio,
il patrono di Ragusa, poi la statua di Orlando, la chiesa dei
Francescani ed una graziosa fontana orientale.
Si
esce dall’altra parte di Ragusa, attraverso una bella porta
fortificata, coperta di edera, fiancheggiata da fossati riempiti di
larici. Si giunge ad una piccola piazza che domina una baia rocciosa
controllata de due forti. Una vettura ci conduce a Gravosa lungo una
strada che assomiglia alla Corniche,
fiancheggiata da ville, da ulivi, da cactus, da aloe, da fichi
d’India, da giganteschi oleandri. (p. 37) Delle terrazze fiorite
scendono fino al mare. I grandi cipressi, le acacie rinsecchite
gettano una nota scura su questo chiarore.
Il
porto di Gravosa è un incanto. Niente può dare un’idea del colore
dell’acqua, dei circhi montani.
La
strada gira attorno al porto, poi segue un lungo braccio di mare che
s’infossa nelle terre tra due montagne. La strada corre a fianco di
alcune belle ville d’aspetto veneziano, con dei magnifici parchi.
Ritorno
a Ragusa, visita del palazzo del Rettore, uno splendido edificio con
una corte quadrata, circondata d’arcate. Guardare particolarmente
la scalinata. (p. 38) Il palazzo è stato distrutto da un terremoto
nel 1667 e ricostruito quasi interamente. Rimangono dei bellissimi
pezzi del XIV e del XV secolo, tra cui un colonnato alcuni pezzi del
quale sono romani.
Non
dimenticare di visitare San Biagio, cattedrale dov’è esposta la
statua in argento del santo.
Da
vedere, nelle chiese, i tesori, due Tiziano ed un Raffaello. Ma
quest’ultimo sembra non essere che una buona copia del Raffaello di
Dresda.
Nel
tesoro della cattedrale, curiosa brocca d’ argento dorato, con un
piatto coperto di serpenti, di lucertole ecc., lavoro fatto per
Mattia Corvino.
Siamo
troppo stanchi, la sera per andare in città; si gioca alla roulette.
Alle 9 tutti sono coricati. Io ho dormito sul ponte. La luna imbianca
il mare, le mura di Ragusa assumono un aspetto da sogno.
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Anton Perko. Ragusa (1896) |
18
settembre – Che caldo! Alle sei di mattina ci sono 25° all’ombra;
all’una ce ne sono 30°.
Andiamo,
di mattina, in città, da un commerciante di ninnoli. Vediamo dei bei
ricami, delle scatole in oro Luigi XVI, un grazioso servizio in
Vienna, ma siamo segnalati e ci chiedono dei prezzi inauditi.
Al
mercato, delle uve, delle angurie, dei mercanti di ferraglie; presso
uno di questi si vendono delle bottiglie vuote che si gettano ogni
sera dal bordo dello yacht. Urbanità perfetta degli abitanti. Ogni
persona si offre d’esserci utile.
Il
costume è cambiato, le donne hanno dei grandi (p. 39) foulard
bianchi sulla testa e la loro figura è spesso semicoperta: hanno
degli stivali, dei grembiuli splendenti, e delle vesti colorate. Gli
uomini hanno i pantaloni a sbuffo, all’orientale, di tinta scura,
la giacca guarnita con lane colorate, una larga cintura che s’incurva
sul davanti e che è al tempo stesso un magazzino ed un arsenale dove
i coltelli e le pistole sono messi alla rinfusa. Sulla testa una
calotta rossa o un turbante.
|
Pescatore dalmata |
Appena
arriviamo sullo Yacht per pranzare siamo invasi dai mercanti che
vengono ad offrire ninnoli, stoffe. Riceviamo poi gli impiegati del
telegrafo nel loro costume di gala, che dà loro l’ aria degli
ufficiali di marina, poi due affascinanti polacche venute da Lemberg
a Ragusa per i bagni di mare.
Ma
questi bagni sono pessimi, mal posizionati, relegati in un angolo
della spiaggia, all’angolo del porto, a causa dei pescecani che
talvolta si mostrano nell’Adriatico. Il nostro pilota ci dice che
per mille franchi non farebbe il bagno attorno al battello dove ogni
mattina noi ci immergiamo nell’acqua. Dopo pranzato andiamo con la
lancia a Ragusa Vecchia,
situata a cinque o sei miglia a sud di Ragusa.
Ragusa
Vecchia è l’antica Epidauro, colonia corinzia che fu per molto
tempo la principale città dell’Illiria, e che gli Avari
distrussero nel 656. Resta poco d’Epidauro, qualche frammento
scolpito e dei vaghi resti di porta.
Facciamo
una lunga passeggiata su un’altura da dove si ha una vista ideale.
Un po’ più lontano, la grotta (p. 40) di Esculapio, d’un aspetto
assai strano. Che insieme di ricordi si agita in me davanti a tutte
queste città, questo passato di cui ogni frammento che tocchiamo con
il piede attesta lo splendore. E tuttavia, malgrado tante lotte,
successi, sconfitte, sangue versato, malgrado tutto, nulla è
cambiato nella natura delle cose.
Ci
sono le vendemmie e c’è anche l’apertura della caccia. Dei carri
da due buoi, carichi d’uve, scendono le colline. Dei cacciatori
tornano con dei carnieri pieni di quaglie. Noi ne compriamo venti per
6 franchi. Sono, d’altronde, eccellenti.
Invece
di rientrare allo yacht, ritorniamo a Ragusa. Il posto abituale degli
incontri è una terrazza-caffè, a sinistra della porta. Questa
terrazza, accanto al teatro, è frequentata soprattutto dagli
ufficiali della guarnigione austriaca. Accanto si trova una fontana
dove le donne vengono a riempire il loro orcio; è uno degli
spettacoli più interessanti mettersi a guardare il va e vieni di
queste donne attorno alla fontana. Costumi diversi, recipienti di
forme differenti, atteggiamenti, chiacchiere.
É
curioso che Ragusa sia la sola città del litorale che abbia
resistito alla dominazione veneziana. Da nessuna parte, in effetti,
si vede qui il leone alato di San Marco. Ragusa è stata, al
contrario, la rivale della potenza veneziana e tutte e due sono
cadute, nello stesso tempo, davanti a Bonaparte.
Da
visitare ancora il chiostro dei Domenicani, con le sue costruzioni
romane e gotiche. Il portale (p. 41) sud sembra essere la parte più
antica del chiostro; è certamente dell’XI secolo.
Quando
rientriamo a bordo il sole tramonta. Ragusa si sporge come un
promontorio nero nel mare rosso; al di là, in un incendio, il sole è
calato nel mare; da Ragusa all’orizzonte, a tutti gli orizzonti, il
cielo ed il mare prendono fuoco e nel fiammeggiare, dei tratti neri,
violetti, blu, delle nuvole arancioni e la notte che cala, lenta,
dolce, ed oscura tutti i fulgori, in un tratto rossastro che
sovrappone il suo bagliore morente alla linea blu-nera del mare.
Ma
la luna, che si è levata, rischiara d’un colpo tutto ciò che può
riflettere la sua luce ed ora è il cielo che è nero, mentre le alte
mura di Ragusa imbiancano sull’orizzonte scuro.
19
settembre – Sempre una terribile calura. Si comprende, di fronte a
questa temperatura, perché gli Orientali hanno fatto delle vie così
strette. Il sole non vi penetra ed è la sola maniera possibile per
sopportare questa costante canicola. La notte si dorme male a causa
delle zanzare e del caldo. Il mattino, dalle cinque, lo yacht si
sveglia, i marinai procedono alla pulizia quotidiana; si lucidano gli
ottoni, l’acciaio dei cannoni; si dà la cera e si lava tutto ciò
che si può lavare. Così alle cinque e mezza tutti sono riuniti sul
ponte, negli abbigliamenti più svariati. Si prende il caffelatte, si
fuma la pipa. Al mattino, si fanno dei progetti per la giornata, poi
ciascuno fa’ la sua toilette, il bagno o la doccia a seconda (p.
42) dei gusti. Alle otto si è pronti. Il pranzo è alle 11 e ½.
Poi, dopopranzo, viene la felicissima ora dell’indispensabile
siesta.
Stamattina
andiamo a terra di buon’ora, poiché lo yacht rolla terribilmente;
nessuno ha potuto dormire. Alcuni hanno sul viso abbronzato delle
tinte verdastre che sono le avvisaglie del mal di mare. Tutto ciò
passa, a terra. Si ha un bel restare molto tempo in un paese benché
piccolo, non lo si conosce mai abbastanza. Ad ogni discesa a terra
troviamo un nuovo dettaglio, un angolo di strada, un ninnolo, un
costume. Stamattina, delle donne passano in gonnellina bianca corta,
con una larga guarnizione di lana ricamata, un grembiule multicolore,
una sorta di mantello aperto sul davanti, che ha le forme di un
cappotto da uomo; sulla testa un fazzoletto bianco, pieghettato, una
estremità del quale pende sul dorso mentre l’altra forma una punta
a cannoncini sulla fronte.
Oggi
vediamo al palazzo rettorale il capitello di Esculapio che sormonta
una delle colonne del palazzo e proviene da Epidauro dove pure ornava
una colonna del tempio di Esculapio che la tradizione voleva nato in
questa città.
Il
dio, con una grande barba, l’aria ispirata, il libro aperto sul
quale si posa la mano destra, la testa ornata da un turbante che ha
la forma di un mezzo melone, appoggia la mano sinistra su una
credenza, carica di vasi di farmacia, sotto la quale ci sono un forno
e delle fiale.
La
chiesa di Sant’Ignazio, rinascimento bastardo dell’epoca
peggiore. Da notare anche la torre della (p. 43) Dogana ed il suo
orologio, la chiesa di santa Maria Maggiore e la chiesa moderna
dell’Annunciazione.
Cerchiamo
dei resti di quella che è stata chiamata l’Atene slava, poiché
Ragusa passa per esser stata un centro intellettuale. Non rimane
niente. D’altronde, gli uomini notevoli che sono nati a Ragusa sono
completamente sconosciuti al pubblico. Quanto a me, non sapevo il
nome di nessuno di loro, se non quello di Baglivi.
I
matematici Boscowitch e Ghetaldi, che fu amico di Cartesio, il poeta
Giorgetti, Palmatitch, Bona, Guadalitch, il medico Baglivi, lo
storico Banduri, tutti questi nomi non ci dicono nulla.
E (p. 44) non sembrano esserci stati in Dalmazia dei grandi pensatori
l’opera dei quali domini un’epoca. Ciò che sembra più curioso è
la poesia popolare, quella sì veramente slava nella sua espressione,
ciò che significa delle cose di squisita tenerezza e di
coinvolgimento. Il poco che ne ho potuto assaporare mi ha dato
l’impressione composita delle rapsodie greche e dei trovatori del
medioevo, con un aspetto soprannaturale che fa’ pensare alle
leggende del Reno, come questa storia di Marko Kraliewitch,
il principe degli Eiduchi, che se ne va, sulle alte vette innevate
dei Balcani, a chiedere al Félas
il segreto della sua nascita.
Discutiamo
di tutte queste cose nell’ora che precede la siesta; finita quella
andiamo a visitare l’isola di Lacroma,
che chiude la baia di Ragusa. In lancia si arriva in cinque minuti ad
un molo molto comodo, dove il mare è così chiaro che vi si vede il
fondo ad una grande profondità; vi sono centinaia di ricci. Dal molo
un cammino nel bosco conduce in dolce salita al castello, costruito
sulle rovine di un antico chiostro fondato da Riccardo Cuor di Leone
che fece naufragio a Lacroma, recandosi alla crociata. Il castello è
stato la dimora dell’arciduca Massimiliano e, più tardi,
dell’arciduca Rodolfo: quest’ultimo amava, si dice, la solitudine
del vecchio chiostro,e l’anno che precedette la sua tragica fine
egli vi venne ancora e non se ne andò che con dispiacere. Oggi il
castello ha ripreso la sua destinazione originaria.
L’imperatore
d’Austria, dopo la morte del figlio, ha donato l’isola ai
Domenicani, che vi si sono installati da poco. Il priore ci riceve
alla porta; è un uomo grande, energico; porta un cappello di paglia
gialla (p. 45) e tiene in mano un grosso bastone.
Questo
castello ha invero un aspetto di convento. Al piano terra, una sala
immensa, divisa in due da alte arcate; al primo piano una lunga
galleria, da ogni parte della quale si aprono le piccole porte delle
celle; sono, o meglio erano, le camere. L’arredamento è rozzo; dei
vecchi mobili senza carattere, dei calchi in gesso, dei busti in
cattivo stucco, delle incisioni di quint’ordine in cornici casuali.
All’estremità della galleria una torre; al suo centro una galleria
scoperta, da dove si ha una vista superba (p. 46) sul mare. Nei
giardini, come in tutta l’isola, la vegetazione è quella tipica
dei paesi caldi. Delle palme, inviate dal Messico dall’imperatore
Massimiliano crescono in terra; i fichi d’India sono giganteschi;
le uve hanno l’aspetto della Terra Promessa. Lunga passeggiata nei
giardini. Visita delle rovine del convento di Riccardo Cuor di Leone.
Una grande torre quadrata e dei resti di un chiostro. Una terrazza
all’estremità dei giardini verso il largo, in un ammasso di rocce,
sulle quali il mare si spezza. Era la passeggiata favorita
dell’arciduca Rodolfo: si può capire, poiché è difficile
immaginare un luogo più poetico.
Il
priore ci riporta al convento dov’è preparato uno spuntino:
dell’uva, dei cocomeri rossi e del vino di Meleda, strano, con il
sapore di pietra focaia. Una bandiera sventola sulla torre: oggi è
il giorno dell’elezione del generale dei Domenicani, che ha luogo a
Lione. Padre Montsabré è candidato, il suo concorrente è tedesco.
Quest’ultimo ha le maggiori possibilità di vittoria, poiché
l’ordine si volta dalla parte del sole.
Si
riguadagna la lancia per un sentiero tortuoso, nei boschi che
ricoprono l’isola; in un certo posto si cammina sotto una volta di
oleandri alti come querce.
Ritorno
a Ragusa per acquistare delle provviste. Cena allegra a bordo. Dopo
cena visita del priore dei Domenicani, accompagnato da un giovane
studente di diritto, di Vienna, che passa le sue vacanze a Lacroma.
Il padre ci porta sei bottiglie del suo vino. Rimane estasiato sullo
yacht, l’armonia della tavola, lo splendore delle luci elettriche
accese dovunque (p. 47). Gli offriamo del vino di Tenerife del 1820
e, poiché la chiesa di Lacroma è povera, il nostro anfitrione gli
promette un calice d’oro.
Serata
piacevole che si prolunga fino alle 10. Per noi è tardi.
26
settembre – Preparativi di partenza per Corfù. 180 miglia marine,
ovvero 20 ore circa. Si torna a Ragusa per le provviste; è domenica;
uscita dalla messa; tutti i costumi del paese sono in vista, così
luminosi sotto il sole. Ci sono 27° a mezzogiorno.
Il
padre domenicano ci viene a salutare a bordo; (p. 48) ci porta del
tabacco d’Erzegovina, biondo e profumato. Ci dà il suo biglietto
così redatto:
Nadslojnik
Dominicanskoga Samostana na
Alle
cinque della sera si leva l’ancora. La costa sparisce ben presto.
Intuiamo in lontananza le bocche di Cattaro,
il lago di Scutari,
Dulcigno,
la baia di Dinazzo,
Il mare è calmo fino a mezzanotte. Allora il vento si leva e lo
yacht si mette a ballare. Impossibile dormire. Si passa la notte sul
ponte. Una goletta bianca appare all’orizzonte, tutte le vele
spiegate. La luna rischiara la notte.
|
Perasto (all'interno delle Bocche di Cattaro) |
21
settembre – Alle cinque un giorno pallido. La costa appare; è il
capo Linchetta
dentro al quale si trova la baia di Valona.
Abbiamo appena lasciato a sinistra il faro di Sasero,
sull’isola omonima che chiude la baia di Valona.
A
destra alcune isole emergono dal mare; si tratta di Merlera, Fano,
Samatraki.
Sul fondo, davanti a noi, le montagne formano delle quinte: le prime,
scure, le altre, pù alte, chiare, le ultime pallide come una nuvola.
Entriamo nel canale nord tra Corfù
e la costa. A destra dell’entrata c’è un isolotto, Tignoso,
sul quale si trova un fanale rosso.
L’arrivo
a Corfù è superbo e dà un’impressione splendida. Nella rada
immensa un isolotto spoglio, il cui punto più alto, coperto d’un
forte smantellato dagli inglesi quando hanno lasciato l’isola per
restituirla ai Greci, al momento dell’ascesa al trono (p. 49) del
re Giorgio. Poi, dietro all’isolotto, la città tra due forti, di
cui quello sulla punta della rada è stato così spesso riprodotto in
tutti i racconti di viaggio. Tra i due forti, delle case di diversi
piani, con delle imposte verdi, ma senza le tonalità che ci avevano
affascinati a Sebenico ed a Ragusa. In lontananza, delle montagne
coperte d’una bruma violetta. Alle undici si getta l’ancora tra
l’isolotto fortificato e la città. Nello stesso tempo arriva lo
yacht dell’imperatrice d’Austria, che ci ha seguito per una parte
della notte.
|
Elisabetta d'Austria |
L’imperatrice possiede qui una villa, nella quale si
stabilirà per un mese. Questa villa
è in una posizione magnifica: domina una baia situata dietro la rada
che sembra aver servito un tempo da porto alla città.
Non
conosco più grandi ammiratori che i viaggiatori ed i poeti. Che cosa
non hanno detto su Corfù, da Omero che vi vantava i giardini di
Alcinoo, fino al nostro amico Bourget
che vi ha consacrato delle pagine piene di ammirazione! A leggere le
descrizioni che ho trovato nella magnifica biblioteca di viaggio
dello yacht, questo sarebbe niente meno che il Paradiso terrestre.
Ci
aspettiamo di trovare dunque uno di quegli angoli benedetti della
terra in cui tutto concorre a donare un’impressone di felicità, in
cui la vita sembra migliore, dove si vorrebbe abitare sempre come in
un luogo di sogni da molto tempo accarezzato, infine realizzato. Così
è con vera impazienza che attendiamo il momento in cui la fine del
pranzo ci permetterà di andare a terra.
Che
delusione! Sul molo dove sbarchiamo (p. 50) si accalca una
popolazione eteroclita nella quale non vi è che un elemento comune:
la sporcizia. Dei Greci in gonnella bianca, degli ebrei sudici, dei
pope in cappello alto, in sottana puzzolente, tutta un’armata di
guide illegali, di bambini cenciosi, si precipitano incontro a noi.
Scelgo una guida che parla soltanto italiano e inglese, a caso, al
fine di sbarazzarmi dell’orda che mi circondava, e partiamo alla
volta della città. La guida mi chiede dieci franchi, ed io gliene
offro cinque, lui rifiuta; me ne vado, lui mi corre appresso ed
accetta.
Innanzitutto,
ciò che colpisce di Corfù è l’inesprimibile odore che sprigiona
dalle strade, dalle case, dagli abitanti. Dico inesprimibile poiché
non conosco aggettivi, né termini di comparazione che possano render
conto di ciò che si sente all’angolo di alcuni incroci.
Delle
strade sporche, dovunque mucchi di meloni gialli e verdi, di
pomodori, di fichi d’India, di uve enormi, di gente seduta davanti
alla porta di pietosi caffé; tutto ciò è pittoresco, e le tinte
crude di questi ammassi di vettovaglie non mancano di colpire
l’occhio, ma bisognerebbe vedere tutto ciò da molto lontano e non
avvicinarsi che al limite delle sensazioni olfattive. Aggiungete a
questo una calura pesante, implacabile, dei mulinelli di polvere,
un’aria infuocata che distrugge le membra ed intorpidisce il
pensiero ed avrete un’idea degli incantamenti di Corfù.
Almeno
potessimo rinfrescarci. Non nei caffè, non vi si beve che mastica
(p. 51), delle limonate innominabili o della birra allo zenzero.
Ripieghiamo su della frutta ed acquistiamo dell’uva; è qui che la
guida diventa utile per fissare il prezzo; ora, ci chiedono 3 franchi
per una libbra d’uva, e ciò in piena stagione, in piena vendemmia.
L’avevamo capito: a Corfù le guide ed i commercianti si mettono
d’accordo per depredare i viaggiatori.
Vogliamo
lasciare questo puzzo e cercare, fuori città, un po’ d’aria, di
frescura. La guida chiama una vettura, una vettura attaccata a
cavalli apocalittici, magri, che cedono ad ogni passo, incapaci anche
del trotto più lento. Partiamo, attraversiamo un vecchio rudere
della cittadella veneziana, con il leone di San Marco sulla porta e
ci dirigiamo verso la montagna. Una strada, o piuttosto una buca
polverosa, fiancheggiata da aloe, e fichi d’India, da cactus
imbiancati... orrendo! Da ogni parte della strada dei verzieri con
dei begli ulivi, qua e là degli oleandri. Sudiamo copiosamente sotto
questo sole di fuoco, i nostri polmoni sono seccati da un’inesorabile
polvere, e la guida ci fa ammirare nel suo gergo gutturale, lo
splendore della vegetazione e la bellezza della natura corfiota.
Andiamo al Palazzo reale, alla Villa reale; vorrebbe condurci al
cannone ed alla tomba di Alcinoo, ma non ne ha il modo, soccombiamo e
chiediamo di tornare a bordo. Siamo stati un’ora in vettura; la
guida ed il conducente entrano in un conciliabolo dal quale risulta
che dobbiamo 7 franchi per quest’ora. Se mai andate a Corfù, non
fidatevi di una guida che porta una barba grigia (p. 52) e vi mostra
dei certificati di turisti attestanti che egli è la miglior guida di
Corfù.
Non
c’è niente di bello in tutta la città se non la grande piazza
dove soffia un po’ d’aria, calda, è vero, ma almeno è aria.
D’altronde questa piazza è vuota e triste come il resto della
città.
Quando
rientriamo a bordo, ciascuno scambia le proprie impressioni. Gli uni
iniziano con l’entusiasmo d’obbligo, ma poco a poco si cede e
siamo tutti concordi sull’immensa delusione che Corfù ha prodotto
in noi.
Nella
notte un violento temporale, il mare è agitato; è impossibile
dormire nelle cabine, dove ci sono 35°, né sul ponte, dove si
rovescia l’acqua.
22
settembre – Questa mattina il cielo è tutto nero, dei brandelli di
burrasca passano attorno a noi. La calura non è cambiata; è pesante
quanto ieri, non si può fare un passo senza essere in un bagno di
sudore.
Corfù
è mal collegato al continente. Non ci sono corrieri se non il
lunedì, il giovedì ed il venerdì; non si parte se non il
mercoledì, il sabato e la domenica. Il telegrafo vi funziona in modo
incerto. Il burro è detestabile, il pane assomiglia ad una spugna;
non vi è nulla di rimarchevole se non la frutta, l’uva
specialmente, che è eccellente.
La
calura è tale che fino alle quattro della sera non si può scendere
a terra. Infine fà meno caldo e possiamo partire. Due vetture ci
attendono sul molo. Lasciamo molto velocemente la città ammorbata,
guadagniamo la spianata sempre vuota e seguiamo una bella passeggiata
alberata, (p. 53) con un molo sulla baia. Per questa strada dobbiamo
andare al Cannone,
la principale passeggiata, lo scopo dei comuni turisti. Bella strada
tra eucalipti, aranci, limoni, foreste di ulivi dal tronco tortuoso,
enormi, cactus, una vegetazione davvero bella, ma bruciata
disperatamente dal sole, corrosa dalla polvere. Arriviamo al Cannone,
è un piccolo rilievo che domina la baia di Kalakiopoulo;
è là che la leggenda pone i giardini vantati d’ Alcinoo.
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Simone Pomardi. Porto Vecchio e giardini di Alcinoo a Corfù (1820) |
Ai piedi
del monticello il mare, o meglio, una baia immensa, dall’acqua
profonda, disseminata di capanni per la caccia all’anatra,
circondata da montagne; a sinistra il mare che sembra senza limiti.
L’entrata di questa baia è sbarrata da due isolotti: uno è
collegato alla terra da una sottile striscia di ciottoli,
l’altra, più lontana, grande come una mano, è coperta d’alti
cipressi;
è là che Ulisse approdò dopo il suo naufragio; è là che si trova
la tomba di Alcinoo. Strano come si è commossi da questi ricordi; si
cerca una traccia di queste leggende, traccia mai cancellata, e però
sono le stesse rive, è lo stesso mare: forse il divino Ulisse
approdò realmente in questo isolotto ed i suoi occhi videro questo
paesaggio che i secoli trascorsi non hanno cambiato. Ed il mio
pensiero se ne va più lontano d’ Ulisse, risale a Nettuno che, può
darsi, sia stato un essere reale, poiché Alcinoo pretendeva di
discendervi, che regnò su questi Feaci, in tempi preistorici e che
mi sembra di poter evocare attraverso l’immaginazione, nella
solitudine di questa baia.
Come
sembra lunga la storia di quest’isola! (p. 54) Proprio i suoi
diversi nomi attestano l’antichità delle generazioni che vi hanno
calpestato il suolo e la di cui polvere rivive nella sua vegetazione
o nella terra così fertile. Dreparium, Feacia, Scheria, Corcira,
Corfù! Che ruolo ha giocato nella storia della Grecia. I Corciresi
furono gli alleati di Mummio, quando devastò Corinto. Flaminio vi
concentrò le sue truppe prima della sua campagna contro Filippo.
Belisario, Totila, Roberto il Guiscardo, Alessio Comneno, Carlo
d’Angiò hanno calpestato il suo suolo. Poi Venezia vi ha piantato
il suo stendardo e messo il leone alato su tutti i monumenti per
attestare il suo dominio. Il maresciallo Schulembourg l’ha difesa
contro i Turchi ed il sultano Achmet III. Corfù è stata francese,
inglese, russa, repubblica indipendente. Da tutto ciò, da questo
passato eroico emana un sentore di polvere e di guerra che fà
contrasto con il silenzio degli orizzonti e la calma del mare.
Rientriamo
a Corfù; io ho come un’emozione nel cuore; vorrei veder spuntare
qualche frammento dei tempi eroici, ma i grandi ulivi passano, gli
odori di eucalipto e d’arancio ci portano in altri cammini del
sogno, e la sera scende quando arriviamo sulla spianata.
Al
centro un padiglione decorato con dei meloni e dei cocomeri
policromi, oro e verde; dei musicanti del reggimento greco che
tengono qui la guarnigione suonano con brio qualche motivo militare.
Attorno al padiglione dei nugoli di bambini che ballano. Poi, qui e
là, qualche gruppo raro che passeggia su e giù nella frescura
appena iniziata; è l’ora in cui si esce (p. 55) dalle case, poiché
durante la giornata l’immensa calura confina gli abitanti nel fondo
delle case ben chiuse. La brillante sfilata dei costumi, delle
eleganze di cui parlano i viaggiatori, consiste semplicemente in
qualche soldato greco, vestito di bianco o delle tuniche scure degli
ufficiali, dei bambini, dei rari turisti in flanella e tra gli
abitanti niente che valga la pena di essere preso in considerazione.
Il tipo femminile è poco interessante; le donne sono mal vestite,
senza distinzione. Se non fosse per le albanesi, in gonna bianca
plissettata, dal dorso coperto di pelli di montone ondeggianti che
danno una nota chiara, tutto sembrerebbe banale e più brutto da
vedere che la piazza pubblica dove si fa musica nell’ultima città
dell’ultima provincia d’Europa.
Tuttavia
io conservo negli occhi, rientrando a bordo, un ricordo dal quale non
posso staccarmi; è ancora un tramonto. Ecco nell’Adriatico la cosa
veramente originale, poiché è ogni giorno mutevole, sempre nuova; è
l’aspetto del matrimonio del mare con il cielo, nelle ore notturne
di luna, o quando il sole sorge dal mare e vi cala.
Questa
sera, da una nuvola tutta nera, il sole lancia dei raggi d’oro sul
mare, attraverso un buco aperto. Non lo si vede ma è come una gloria
che scende dall’alto e che abbraccia con un polverio d’oro e di
fuoco la montagna ed il mare.
Serata
a bordo. Non c’è niente da vedere né da fare a Corfù la sera. Si
discute di poesia; tutti vi passano. Ma Baudelaire sembra restare e
ciascuno (p. 56) è d’accordo nel trovare che La
servante au grand coeur
è una delle vette della poesia immortale. Bazziche, solitari. Sono
le dieci. Al rollio dolce della Namouna, ognuno si addormenta in un
dondolio.
23
settembre – Tempo coperto. Sempre 25° alle cinque del mattino. Nel
divenire azzurro del mattino Corfù si sveglia. Veramente,
l’impressione diviene migliore man mano che si rimane per più
tempo, e non fosse per gli odori orribili da attraversare, la terra
attira. Com’è curioso vedere che tutto ciò che vi è di buono
nell’isola è stato fatto dai Francesi durante la loro occupazione;
è al generale Donzelot che li comandava che si deve la spianata con
la sua passeggiata lungo la banchina sul mare e le strade dell’isola
tutte ben tracciate e che, benché non vi sia stata mai fatta
manutenzione, sono ancora migliori che in molti altri paesi.
Una
guida viene a bordo a darci una nota sulle principali escursioni da
fare. Le trascrivo testualmente:
Castrades,
Palazzo Reale e Cannone, 1h e ½, andata e ritorno, 5 franchi;
Gastauri, Palazzo reale dell’imperatrice, 2h ½, andata e ritorno,
9 franchi; Peleca,
vista molto pittoresca, 3 h, andata e ritorno, 10 franchi; Benizza,
domina il mare, 3 h e 1/2 , andata e ritorno 12 franchi; Dotamo,
la torre, 1 h e ½, andata e ritorno, 8 franchi; Santi Deca, 2h e ½,
andata e ritorno 11 franchi; Dalescastrizza,
monastero, vecchio castello, 6h, andata e ritorno, 20 franchi.
Ma
noi ci accontentiamo della passeggiata dei giorno precedenti. Siamo
sfiancati dalla calura, dall’assenza d’aria, dalla polvere, e
decidiamo (p. 57) di andare, dopo pranzato, attraverso il Canale del
Nord, a gettare l’ancora in uno dei golfi dell’Albania.
In
effetti ci vuole un’ora appena per arrivare in un’ansa della baia
di Pagana sulla costa d’Albania. Che cambiamento. Un tempo fresco,
una brezza che accarezza come un bacio, dei soffi odorosi che
giungono da terra. Si getta l’ancora all’estremità della baia,
in una sorta di lago, tranquillo e così blu, circondato da montagne
scoscese che scendono ripide nel mare; è un angolo ignorato del
mondo dove sembra che alcun vascello si sia mai avventurato. Ma,
ispezionando i luoghi, si vedono i resti di un bersaglio su una delle
montagne, e la nostra guida ci racconta che un vascello da guerra
inglese, il Colossus,
è venuto recentemente in questa baia per farvi esercitazioni di
tiro.
Che
silenzio! Che pace profonda! Ecco un luogo dove va bene riposarsi
dalla lotta. Un canto molto lento, monotono, viene a tratti
attraverso la montagna e sulla cresta appare un pastore molto
vecchio, un pastore da leggenda. Si siede su un blocco di roccia e
ieratico, il mento sulla mano, guarda lo yacht fissamente come una
stranezza.
La
guida ci ha condotti qui per farci cacciare. Una jole a quattro remi
ci porta a terra. Saliamo la montagna, nel mezzo delle rocce, dei
cardi, delle piante flessibili, dal grosso bulbo di cui lo stelo,
unico e ondeggiante porta in cima come una lancia di piccoli fiori
bianchi. Alcuni rari arbusti spinosi verdeggiano negli anfratti delle
rocce. Queste rocce sono magnifiche; è una sorta di marmo con delle
vene (p.58) rosate. Ci sono molti serpenti, degli insetti di ogni
genere e delle enormi tartaruge. Sulla cima della montagna appare da
una parte il mare con le coste di Corfù in lontananza; dall’altra
la baia di Pagana con la Namouna, tutta bianca, come un grande
uccello posato sul mare. Ridiscendiamo presso una caverna immensa,
d’un centinaio di metri di profondità, che si apre sul bordo del
canale come un baratro spalancato; è un rifugio di piccioni che
prendno il volo da tutte le parti. Ma è troppo tardi e noi non ne
portiamo indietro che cinque.
Ritorno
dall’altro versante della montagna, coperti di sudore, estenuati da
questa camminata nelle rocce taglienti e la discesa a picco fino al
canotto che ci attendeva. Ma la giornata è stata superba, quest’aria
viva ci ha rinvigoriti e ceniamo con un formidabile appetito.
La
sera, temporale terribile, i lampi abbracciavano tutta la baia; dei
tuoni facevano tremare la Namouna e se ne andavano ripercossi in
lunghi echi. Un diluvio, dei torrenti d’acqua; si son dovuti
chiudere gli oblò e dormire in una calura umida di 35°.
24
settembre – Anche stamattina alle cinque tutti sono sul ponte. Si
tratta di tornare al buco dei piccioni prima di giorno, ma arriviamo
troppo tardi ed essi sono già andati via. E tuttavia le primi luci
del giorno appaiono solamente ad oriente. Alle sette siamo di
ritorno, il temporale ricomincia, il cielo è tutto nero, i (p. 59)
tuoni, in quest’ansa chiusa, sono veramente impressionanti.
All’una
lasciamo la baia di Pagana, dopo aver preso ancora cinque tartarughe
sulla monatgna, che ne è letteralmente coperta, ed andiamo ad
esplorare degli altri buchi di piccioni situati sulla costa
d’Albania, che è letteralmente forata; è un viaggio di due ore
con una velocità di dieci nodi.
Un
fiume che si getta nel mare attraverso due bocche dà a questo degli
strani aspetti. Dapprima ci sono delle macchie blu in un’acqua
color oliva; più lontano il tono oliva è continuo e diventa giallo
oro; poi un nuovo degradare di toni nello stesso senso; poi infine
una linea blu come tracciata con la squadra; è di nuovo il mare
puro. Le montagne viola formano, contrastanti, più linee di cime
sovrapposte. Tra le due bocche del fiume, ammasso di colline che
un’illusione ottica fà sembrare al di sopra del livello del mare.
Che gamma di toni, dall’oro del mare fino alle montagne nere, blu,
violette!
Ci
imbarchiamo sulla lancia. Alla grande due miglia, fino alle caverne.
Su uno scoglio un gruppo di orche marine che scappano troppo presto
perché possiamo raggiungerle. Poi le caverne, tre grandi sotterranei
nella roccia scoscesa, nelle quali il mare si riversa con un rumore
terribile. La guida ed un marinaio vi si addentrano su di una piccola
scialuppa; migliaia di uccelli ne escono ma noi siamo sei fucili: è
troppo; ci ostacoliamo a vicenda. Ho la gioia di vedere tutti i
piccioni scappare. (p. 60) Rientrati a Corfù alla cinque; si va alla
posta dove si trovano lettere di dieci giorni. C’è bisogno di due
uomini per portare la posta nei sacchi. Tutta la serata, a bordo, si
spulcia la corrispondenza, si leggono vecchi giornali; ci si
meraviglia di ogni fatto accaduto durante l’assenza. Bisognerebbe
partire questa sera, ma il mare è in burrasca.
25
settembre - Partenza alle cinque, mare violento. A mezzogiorno
scoppia la tempesta; nulla sta più sul ponte; soffia un vento
terribile; delle onde immense sollevano la Namuona che scricchiola da
tutte le parti; delle lame enormi spazzano il ponte. L’ ancora di
fortuna è strappata dalla poppa. Sto così male che perdo la nozione
del pericolo, steso sul ponte, sballotato come un pacco dal rollio
che porta via tutto ciò che non è legato. I lampadari del salone si
rompono e crollano con un fracasso sinistro. Tutto è nero, acqua e
cielo. Ma l’acqua sbianca attorno a noi per la schiuma delle onde.
Sarebbe uno spettacolo superbo se il mal di mare non annientasse ogni
facoltà. Del rumore, del vento, dei colpi delle onde, degli
scricchiolii dello scafo. I cani di bordo sono spaventati e si
rifugiano negli angoli. E a causa di un’avaria della macchina
procediamo a sei nodi.
Che
notte! Sbattuti qua e là, inerti, scossi da render l’anima in
un’oscurità assoluta squarciata dal grido della sirena, così
lugubre.
26
settembre – ma appare il giorno. Il vento s’attenua, il sole,
molto pallido, molto scialbo, sorge dalle nubi, il mare ridiventa
blu. Si tinge d’argento fino all’orizzonte. A mezzogiorno la
calma ritorna; siamo (p. 61) così prostrati da queste
ventiquattr’ore di nausea che nessuno dice niente.
27
settembre – Tempo superbo, mare calmo; l’orizzonte è violetto,
il mare d’un blu azzurro scuro. Ecco Venezia in lontananza.
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Francesco Grandi. Venezia |
Questa espressione, già incontrata in precedenza, si riferisce alle
teste scolpite poste sopra i portali dei palazzi, che sovente ne
simboleggiavano le guardie armate.