Introduzione
Parecchi anni fa mi sono trovata per caso davanti a due relazioni di viaggio, pubblicate dove non avrei mai pensato avrebbero potuto trovar posto, cioè nelle Memorie dell'Accademia di Scienze, arti e lettere di Digione. I due testi parlavano dell'Istria e della Dalmazia e di un viaggio sorprendente effettuato da un medico francese a bordo di un'imbarcazione magnifica. Ho tradotto queste due relazioni e, per molto tempo, le ho tenute nel cassetto. Però credo non meritino di restarvi più a lungo.
Lo yacht Namouna |
Quello
che segue è il racconto di un viaggio particolare, un percorso
breve, effettuato nel 1896 dal medico e letterato francese Albert
Robin, assieme ad altri invitati, a bordo dello splendido Yacht
Namouna, di proprietà del ricco e stravagante James Gordon Bennett,
uomo d'affari americano, editore del New York Herald.
L'imbarcazione
era allora tra le più lussuose in circolazione, ed era dotata di
tutti i comfort, come si deduce anche dai racconti dello stesso
Robin. Gli interni erano arredati con gusto e vi erano esposte le
opere di alcuni artisti amici del proprietario. Una crociera di
lusso, insomma, che concedeva agli invitati, accuratamente scelti, di
godere di ampi spazi e di trascorrere piacevoli giornate a bordo.
A bordo dello yacht Namouna |
Ma
chi era Albert Robin e come arrivò a trovarsi tra gli esclusivi
ospiti a bordo del Namouna?
Albert
Robin era nato a Digione, nel 1847 e fu un medico notissimo in
Francia per le sue rivoluzionarie teorie sulla causa, la cura e
soprattutto la prevenzione delle malattie, che guardavano alle cause
dei disordini patologici. All’epoca la questione non era affatto
scontata in considerazione del fatto che la medicina tradizionale si
rivolgeva soprattutto alla cura dei sintomi della malattia. Pubblicò
moltissimo e fu molto seguito. Di grande importanza gli studi sugli
effetti terapeutici delle acque idro minerali e sull’incidenza dei
mutamenti climatici sulle turbe nutritive, causa queste ultime di
molte patologie. Fondò l’Istituto francese d’Idrologia e di
Climatologia. Ottenne l’introduzione, presso la facoltà di
medicina dell’Università di Tolosa, della cattedra di Idrologia e
Climatologia.
Si
dedicò con passione anche al settore della medicina sociale.
Prima
di laurearsi in medicina prese parte, benché esonerato dal servizio
militare, alla guerra tra la Francia e la Germania, scoppiata nel
1870, ed in quell’occasione rivelò una forte personalità ed un
carattere tutt’altro che mansueto: fatto prigioniero dai Tedeschi
fu protagonista di una rocambolesca evasione e, recatosi a Verdun,
mise a disposizione dell’esercito le conoscenze acquisite nel campo
della chimica, per la fabbricazione di esplosivi di nuova concezione.
Dopo la sconfitta subita dai Francesi, scappò in Belgio e raggiunse
da lì l’armata della Loira.
Uomo
coltissimo, non soltanto in campo scientifico, amava le lettere e le
arti.
Appassionato,
in particolar modo, di letteratura contemporanea, fu apprezzato
corrispondente del New-York Herald come critico letterario. Divenne
amico del proprietario, James Gordon Bennett, che seguì per due anni
di seguito nelle crociere in Istria e Dalmazia, a bordo del famoso
yacht Namouna, all'epoca una delle più belle e confortevoli
imbarcazioni di quel tipo. Di questi due brevi viaggi redasse due
interessanti relazioni pubblicate nelle “Mémoires
de l’Académie des Sciences, Arts et Belles-Lettres de Dijon”.
Frequentava
a Parigi i salotti letterari e diversi artisti tra i quali Édouard
Manet (1832-1883). Una testimonianza di Georges Jeanniot (1848-1934),
pittore ed illustratore, anch’egli amico di Manet, ne segnala la
presenza mentre l’artista, ormai molto malato, dipingeva il
notissimo “Un bar aux Folies Bergère”, nel 1882.
Edouard Manet. Un bar aux Folies Bergère |
Albert Robin
era tra i presenti e Jeanniot lo nomina poiché era legato a lui da
un’amicizia pluriennale.
Fu
membro dell’Académie des sciences, arts et belles-lettres di
Digione dal 1886, ed al Museo di Belle Arti della città lasciò un
quadro di Éduard Manet. L’opera, di piccole dimensioni, raffigura
la casa del pittore.
⇒“Mémoires de l’Acedémie de Dijon”, IV serie, V (1896), pp. 1-23 (francese / french)
Relazione del primo viaggio effettuato sul Namouna nel 1896.
(Traduzione dal francese: Daniela Durissini)
CINQUE GIORNI DI CROCIERA IN ISTRIA1(1896)
26
Agosto - Cominciando a sentirci stanchi di Venezia, dei suoi odori,
del suo caldo umido, sentendoci spossati in questo clima deprimente,
decidiamo di partire e di andare a visitare l'antica Aquileia,
Aquileja, nella parte alta del golfo di Venezia, sulla frontiera del
territorio triestino e dell'Italia.
Leviamo
l'ancora a mezzogiorno e mezza, durante il pranzo, con una calura di
30 gradi ed un sole implacabile. Uscita dal Lido, dove è stata
appena costruita una diga di circa due chilometri. Il passaggio ha
sei metri di profondità e tutte le navi, tranne le grandi corazzate,
possono transitarvi.
Mare
assolutamente piatto, neanche un filo d'aria. Alle cinque arriviamo a
Grado, che appare da lontano come una linea bianca brillante, che
limita il blu del mare. Questa linea è sormontata da un campanile
ottagonale. A destra, un ammasso rossastro rappresenta lo
stabilimento balneare.
Bisogna
gettare l'ancora a due chilometri, in mare aperto, e poi raggiungere
Grado con una steam-launch
2.
Ma non si può seguire una linea retta a causa di un grande banco di
sabbia che s'allunga davanti alla città. Si naviga (p. 6) lungo una
linea di pali che portano verso la parte ovest di Grado, ad un canale
abbastanza profondo, che avvicina la città dalla parte posteriore.
Grado si trova su un'isola che forma essa stessa il centro di un
grande banco di sabbia, solcato da molteplici aperture attraverso le
quali si penetra in una laguna dello stesso tipo di quella veneziana.
Il
porto di Grado è stretto, piccolo, in acqua poco profonda. Il canale
che vi conduce corre al fianco di una fabbrica di sardine, la sola
industria del paese, che non ospita altro che pescatori e la cui
popolazione è molto povera. Da quando il comune ha fatto costruire
uno stabilimento balneare, alcuni (p. 7) stranieri vengono, durante
la bella stagione, ad animare un po' quest'angolo sperduto del mare
d'Istria; ma sono per la maggior parte persone povere, quelle che
prendono posto a buon mercato nell'uno o nell'altro albergo della
città e non devono certo contribuire ad arricchirla. I bagni
d'altronde sono ben costruiti; la spiaggia è bella per quanto priva
di fondale, se non a grande distanza, da cui la sua utilità per i
bambini e le persone che non sanno nuotare.
La
città è insignificante, senza monumenti, quasi senza ricordi.
Qualche vecchia casa di scarso interesse, una popolazione mediocre,
senza una marcata caratteristica. Non abbiamo visto che un solo volto
di donna grazioso, alla finestra di un'osteria.
Essendo
domenica i caffè sono pieni di gente che canta, o meglio, che grida
da spaccare i timpani; il resto della popolazione si è ammassata al
porto e guarda la nostra launch.3
Tornando
a bordo, ho visto ancora quel fenomeno che mi aveva tanto colpito a
Ragusa: un sole morto, che calava nel mare lanciando nell'infinito
immensi raggi d'oro, separati da solchi d'un blu molto pallido. La
linea dell'orizzonte violaceo ed il mare, tutto d'oro, come un
immenso crogiolo dove sembrava fondere un metallo del color
dell'arancio.
A
bordo, cena silenziosa, sotto una cappa di calore di 30 gradi, senza
un soffio di vento. Verso le otto, abbiamo subito l'invasione di un
nugolo di piccole cavallette verdi, attirate dalla luce elettrica.
Questo sciame, proveniente dalla laguna, ha superato i due chilometri
che ci separano dalla terraferma. (p. 8)
27
agosto - La notte è stata così calda che non son potuto restare
nella cabina. Sul ponte nemmeno un soffio d'aria. Alle sette partiamo
per visitare Aquileia. Andiamo dapprima a Grado, a cercare il
capitano del porto che deve accompagnarci, poichè non ci si può
arrischiare, senza pilota, in questa laguna.
Si
può andare ad Aquileia in due modi: la strada classica, quella che
ci avevano indicata a Venezia, consiste nel partire da Grado,
raggiungere Belvedere in canotto, poi farsi condurre a destinazione
in vettura. Quello che seguiamo noi è migliore: lasciando Grado,
ritorniamo sui nostri passi seguendo la linea di pali. A circa 600
metri dal canale si scorgono due pali sulla destra. É là che
occorre girare, puntando la prua verso un campanile che comanda una
delle entrate della laguna: San Pietro d'Orio. Passato il campanile,
si è in piena laguna; occorre seguire allora i rari pali che
indicano la strada tra gli isolotti appena coperti da boscaglia, dove
non si vedono che dei capanni di pescatori, e raggiungere Ponigai4,
un ammasso di case (p. 9) sull'estremità di uno degli isolotti più
importanti della laguna. Sulla destra di Ponigai, comincia un canale
perfettamente dragato, poco tortuoso, che conduce direttamente ad
Aquileia. Insomma, da Grado, un'ora di cammino con la marea
contraria; con il mare favorevole, siamo arrivati in 40 minuti con lo
yacht.
Si
approda ad Aquileia in una sorta di stagno, che dà sulla grande
spianata; alcune vecchie case, dalle finestre rinascimentali, una
grande costruzione con delle brutte arcate, ma più lontano la
cattedrale, veramente rimarchevole. Essa è composta da numerose
parti: a sinistra, un tempio pagano (p. 10) che potrebbe senz’altro
essere stato costruito al tempo di Marco Aurelio; molto ben
conservato, con dei resti di pitture murali antiche, che si
dovrebbero assolutamente fotografare.
La
cattedrale propriamente detta è un edificio immenso, situato a
destra, fiancheggiato lateralmente da due colonne di granito inviate
da Tiberio. Questa enorme massa, in questo villaggio di 500 abitanti,
mi ha offerto un'immagine sbiadita di Vézelay.
Quando
si pensa che questo villaggio ha meritato il nome di seconda Roma,
che è stato il baluardo dell'Italia del passato, che il suo
patriarca ha sostenuto contro Venezia delle guerre che non sono
state prive di gloria, si rimane interdetti da questa decadenza e da
questa rovina.
L'imperatore
Massimino venne a morire qui, e la città contava 100.000 abitanti
quando Attila la distrusse nel 452. Era tuttavia un centro così
importante che recuperò una certa prosperità e fu la sede di
quattro concili, l'ultimo dei quali nel 1184.
La
cattedrale è costituita da un'immensa navata rettangolare, con dei
marmi preziosi e dei particolari molto curati. La piccola balaustra
d'agata che precede il coro è un vero capolavoro. Alla sua destra
una porta dà accesso ad una cripta, interamente decorata con
affreschi del V secolo, che non sono stati ancora fotografati, ma che
sono di una religiosità toccante nella loro semplicità e nel loro
realismo. Nel mezzo della cripta, una gabbia di ferro contenente
delle grandi casse coperte da un velluto consumato: il tesoro della
chiesa...Povero tesoro!
Da
vedere ancora una cappella laterale a destra, contenente le tombe in
marmo rosso di San Raimondo, patrono della chiesa, e della sua
famiglia. (p. 11)
Sulla
sinistra della cattedrale, il campanile, una massa enorme, che
ricorda quello di San Marco. Tutto attorno degli scavi, poichè si
scava tutto il paese. In evidenza dei larghi basamenti, che
sostengono ciò che resta dei pilastri dell'antica chiesa, uno
splendido mosaico proveniente da un tempio di Giove, ecc..
Tutti
gli oggetti rinvenuti vengono portati al museo, situato a 200 metri
dalla chiesa, sulla strada del villaggio, al centro di un grande
giardino. Il museo è molto ricco; tutto ciò che vi si trova attesta
la passata grandezza di Aquileia. Il piano terra è dedicato alla
scultura ed ai resti dei monumenti; al primo piano vi sono gli armadi
con le armi, i gioielli, i vetri, le terrecotte, ecc..
Vi
ho passato due ore indimenticabili, davanti a queste statue, a questi
sarcofaghi aperti, a queste stele, dove rimane ancora una sorta di
vestigia delle glorie dimenticate! Quella, eretta alla memoria di un
soldato valente...! Che miseria la gloria e come questo passato
parla per dire quanto tutto sia vano!
Nell'ultima
sala, accanto agli altri busti, una testa di donna, senza neppure un
numero di catalogo. Il naso è stato rotto, le labbra consumate dal
tempo, ma il marmo ha conservato una patina quasi viva; gli occhi
senza pupille, volti verso l'alto (p.12) sembrano scorgere ancora
l'estasi; i capelli, in bande ondulate, inquadrano misticamente il
viso, un viso così bello, così puro, al di sopra delle labbra
tormentate, che si direbbero consumate da baci inconsapevoli, mentre
la parte superiore del viso s'illumina d'una trasfigurazione celeste.
Ed
io ho pensato alla vita di questa giovane donna, al dramma d'amore
che forse s'era svolto, nella sua vita terrena.
Ella
doveva aver vissuto il suo sogno, riflesso dai suoi occhi, ed essere
morta vergine nella sua anima, con il segreto d'un altro amore mai
svelato, il mistero del quale si scopre tutto ad un tratto, dopo
diciotto secoli...
La
stele narrava la vanità della gloria, ed ecco che questa testa
mutila sembra cantare l'eternità dell'amore!
In
questa stessa sala ho notato ancora una statua rotta, mancante di un
braccio e di una gamba. É una Venere, che ricorda quella dei Medici,
ma il busto ha una vitalità che manca a quella. Questa non è
Venere, è una donna in carne ed ossa, deificata dallo scalpello di
un artista innamorato.
Per
approfittare al massimo della visita a questo museo, occorre avere a
portata di mano un'eccellente guida, redatta dal
conservatore. Quando siamo arrivati, questi era assente; avevamo una
lettera di presentazione per lui, del luogotenente di vascello
Foscari, che ci aveva raccontato meraviglie della sua scienza.
Lasciando
il museo, ritorniamo al porto, dove incontro il medico del paese, che
parla abbastanza bene francese, e che ci propone di farci visitare i
dintorni. Ma ci sono 35 gradi all'ombra e la (p. 13) presunta
frescura del mare ci attira. Al momento della partenza arriva un
piccolo steamer
5,
che fa ogni giorno il servizio da Grado ad Aquileia, preziosissimo
per i turisti.
Ritorno
a bordo per il pranzo. Non bisogna fermarsi troppo in questa laguna.
Se Grado sembra sana, Aquileia sembra nelle migliori condizioni per
lo sviluppo del paludismo. Il medico mi ha appena detto che la febbre
intermittente è frequente e che lui stesso ne ha avuti numerosi
attacchi.
La
popolazione non è bella: in questo sole, questi grandi spazi, tutte
le persone hanno un aspetto anemico. Non un tratto caratteristico, ma
un aspetto di degenerazione della razza.
Per
tutta la giornata, ci resta come un malessere, una febbre latente,
sonnolenza.
Dopo
pranzo, si leva l'ancora e ... in viaggio per Trieste. Si giunge a
Trieste in un'ora e mezza, lasciando sulla sinistra Miramar, la cui
macchia bianca sottolinea la montagna, che sembra bagnarsi nel mare.
Ho l'impressione di una grande costruzione piena di tristezza,
calcinata dal sole.
Ci
sciogliamo per il caldo, nella rada, e scendiamo a terra. Una città
di fuoco, dove il sole si riflette sulle lastre di pietra delle
strade; degli odori innominabili; molte aspettative quando si vede
dal porto lo sviluppo immenso della città, ai piedi delle montagne
del Carso, con delle colline coperte di case, e poi, quando si entra,
la delusione è altrettanto grande.
Allora
fuggiamo, un interprete ci dice "andate al Fontana, poi
all'Excelsior". Sono dei bagni p. 14) l'uno a destra, l'altro a
sinistra della città. É sufficiente gettare uno sguardo per perdere
per sempre la voglia di entrare. Ma dove sono dunque i Triestini? Al
Boschetto, al giardino pubblico e al Corso, una grande strada dove
passano i tramways, a partire dalle otto della sera. Alle nove,
ritorniamo a terra, ma il Corso è vuoto e quasi buio. Perciò, per
paura di fare il viaggio fino al Boschetto, per trovare la stessa
solitudine, ci fermiamo da Steinfeld, un caffè del Corso, dove
almeno beviamo un'eccellente birra di Graz. Ed alle 10 raggiungiamo
nuovamente lo yacht, con una notte stellata e 27 gradi. C'è da
chiedersi come, in una notte così, si possa dormire nelle cabine.
28
agosto - Una bruma leggera come una garza, avvolge Trieste. Ci sono
29 gradi alle 7 del mattino; alle dieci andiamo al telegrafo ed a
fare un'ultima passeggiata nella città, che è veramente d’una
rara banalità. All'una, durante il pranzo, si leva l'ancora; vediamo
in lontananza Capo d'Istria, la Justinopolis dei Romani, costruita su
un'isola che una diga congiunge alla terraferma, poi Semedella, Isola
e Pirano.
Pirano,
dove stiamo per fermarci, è sita all'estremità di una baia che
porta il suo nome. La città è dominata da una collina, circondata
da alte mura merlate, con delle porte immense, di grande effetto.
Una
strada che segue la costa conduce in mezz'ora alle saline di Porto
Rose, proprio sul fondo della baia, dove un pontile permette alle
imbarcazioni di piccolo tonnellaggio d'imbarcare delle merci.
Vi
é stato appena costruito uno stabilimento (p. 15) balneare, molto
ben attrezzato, per utilizzare le acque madri, che vengono
somministrate pure o miscelate con l'acqua del mare. Ecco la
composizione di queste acque madri:
Cloruro
di magnesio 16.485
Magnesio
basico 0.073
Bromuro
di magnesio 0.260
Carbonato
di magnesio 0.074
Solfato
di magnesio 5.181
Cloruro
di sodio 4.567
Cloruro
di potassio 2.019
A
Porto Rose si possono curare le stesse malattie che si curano in
Francia, con le acque di composizione analoga; ma vi vedo
un'indicazione per gli ammalati molto eccitabili, poichè il clima è
particolarmente sedativo, e l'uso quasi esclusivo delle acque madri
per la balneazione, accentua ancora l'effetto sedativo dovuto al
clima. Anche le affezioni epatiche, il nervosismo, le nevralgie, la
gotta, non costituiscono una controindicazione, se l'impiego delle
acque è legittimato da un'altra affezione.
Da
Porto Rose facciamo rotta su Parenzo, che dista un'ora circa.
Parenzo,
una delle prime conquiste di Venezia, ha visto la battaglia navale
del 1177, vinta dai Veneziani, sulla flotta imperiale; fu presa e
bruciata dai Genovesi nel 1354. Come tutte le città dell'Istria, è
situata su un promontorio, dominato da tre campanili. Il più alto
appartiene ad una chiesa moderna, grosso edificio quadrato, privo di
carattere. Quello di mezzo è il più antico, accanto alla chiesa più
bella che io abbia visto. Immaginatevi una cattedrale unica,
costruita da Teodorico (p. 16) nella prima metà del VI secolo. Essa
si compone di tre parti: un atrio, su un lato del quale si trova la
chiesa con tre navate, mentre sull’altro lato vi è un immenso
battistero, con piscina battesimale. A destra del battistero, il
campanile. Nella chiesa, dei mosaici che vengono restaurati
attualmente e che datano dalla fondazione. Fatevi aprire, da qualche
modesto sagrestano, le assi che rimpiazzano le lastre di pietra della
navata sinistra, e vedrete i più begli esempi di mosaici che si
possano sognare. Essi sembrano provenire da una chiesa più antica,
sulle rovine della quale questa è stata costruita.
Si
entra, attraverso l'atrio, nel palazzo del vescovado, graziosa
costruzione italiana, più recente, ma che ha il merito di intonarsi
con questa magnifica chiesa.
Parenzo
merita assolutamente due ore di visita. Vi si trovano molte rovine
romane, ma sono in pessimo stato. Città vecchia, dalle vie strette,
ma molto pulite, con dei palazzi meno rovinati (p.17) di quanto si
possa supporre; qualche giardino ed un'aria di gaiezza che attrae.
La
baia di cui Parenzo forma il bordo superiore è limitata a sud da una
piccola isola, San Nicolò, sulla quale si erge un castello che fa,
da lontano, un'impressione grandiosa, fiancheggiato com'è da un'alta
torre quadrata, merlata. Sorge, tutto bianco, da un ammasso di
vegetazione, con a lato le rovine grigie di una vecchia torre
rotonda, resti di antiche fortificazioni veneziane. É il castello
del marchese B. Polesini, deputato della regione del Reichsrath
austriaco. Il signor marchese ci invita a sbarcare sulla sua isola
che, in realtà, non corrisponde affatto a ciò che avevamo
immaginato.
Ma
la vista che si ha del mare, dall'alto, e che, con il tempo limpido,
si estende al di sopra di Parenzo, su tutta la costa dell'Istria, è
incomparabile.
Parenzo
conta 4.500 abitanti e sembra improbabile che la città abbia ad
espandersi.
Tra
Pirano e Parenzo ha avuto luogo la famosa vittoria dei Veneziani
sulle flotte unite di Federico Barbarossa e dei Genovesi. Questa
vittoria valse ai Veneziani la supremazia sull'Adriatico, ed il papa
Alessandro III, consegnando al doge Ziani l'anello simbolico gli
disse: "Ricevete questo anello come un segno dell'impero del
mare; voi ed i vostri successori sposatelo tutti gli anni, affinchè
i posteri sappiano che il mare vi appartiene di diritto per la
vittoria e deve essere sottomesso alla vostra repubblica come la
sposa lo è allo sposo".
Ma
viene la notte ed io vorrei trovare immagini nuove, per descrivere
ancora la magia dei crepuscoli dell'Adriatico; ogni giorno cresce
(p. 18) l’impressione della veglia; ogni giorno il quadro cambia ed
assume aspetti inattesi. Un grande silenzio sembra avviluppare il
mare e le città sembrano addormentarsi in un nimbo d'oro che si
oscura lentamente e quando, più tardi, si è fatta notte, sotto la
luce delle stelle, esse sembrano cullate dal mare, nel loro sonno
tranquillo. Ma questi sono spettacoli che non si dovrebbero
contemplare da soli; la solitudine s'impregna di tristezza, e
l'irrealizzabile vi prende una forma la cui scomparsa rende più
penoso il risveglio.
29
agosto, 30 gradi - Un'ultima visita a Parenzo; pranzo a bordo con il
marchese Polesini che ci accompagna fino a Pola. Partenza all'una.
Alle due arriviamo a Rovigno. La punta della penisola dove sorge la
città è occupata dalla chiesa, davanti alla quale si trova il
cimitero, terrazzato, il cui alto muro di cinta ha l'aspetto d’ una
fortezza ed è lambito dal mare. La città multicolore, con una
manifattura di tabacco ed una fabbrica di sardine
di
Nantes,
è più graziosa a vedersi da lontano che da vicino. Vi si entra
attraverso un'antica porta, ornata dal leone di San Marco, ma non
offre niente di notevole, fatta eccezione per qualche casa con
terrazza superiore, in forma di chiostro. Del resto città mal tenuta
e priva di interesse, anche dal punto di vista storico, poichè non
possiede altri fasti che l'esser stata bruciata dai Genovesi.
Dunque,
Rovigno non ispira che il vivo desiderio di andarsene. In viaggio per
Pola. Passiamo davanti alle isole Brioni, che difendono l'entrata
della baia, sul cui fondo (p. 19) si trova Pola. Queste isole,
ricoperte da enormi fortificazioni che gli Austriaci hanno costruito
quando hanno lasciato Venezia, sono di una tale insalubrità che non
vi si possono tenere delle truppe per più di un mese. Esse ospitano
delle cave di pietra, celebri un tempo, e dalle quali si trassero i
materiali di un gran numero di palazzi veneziani. Nel 1379 i Genovesi
vi sconfissero i Veneziani.
Ma
ecco Pola, l'antica colonia romana, sul fondo della baia, con due
porti, il porto commerciale a sinistra, il porto di guerra a destra.
Gettiamo l'ancora nel mezzo della baia, dove ci è consentito, con
uno speciale permesso, poi andiamo sulla terraferma. Città triste,
polverosa, il porto di guerra più importante dell'Austria; dovunque
dei marinai, degli ufficiali di marina, una popolazione pallida,
piuttosto gracile; la sola figura di donna che merita di essere
citata è quella dell'incaricata delle poste, e ciò nonostante
questa sfigurerebbe a Parigi. Visitiamo il tempio di Augusto, con un
portico a sei colonne corinzie, la Porta Aurea, il palazzo comunale,
piuttosto curiosi (p. 20) e costruiti nel mezzo di un antico tempio
romano la cui parte posteriore è estremamente ben conservata. Ma ciò
che è veramente imponente è l’ arena, costruita, sembra, verso il
II secolo. Ho misurato una lunghezza di 235 passi e contato 72 arcate
che sono sovrapposte su tre file. L'esterno è assai ben conservato,
ma l'interno è stato rovinato dai Veneziani che vi hanno prelevato
una gran quantità di blocchi di pietra. Nel mezzo, un'immenso scavo
che serviva alle naumachie con i resti delle condotte attraverso le
quali venivano alimentati i bacini.
Vedendo
questo, torna alle labbra il luogo comune: "la Maestà del
popolo romano". Ma resto per molto tempo a sognare davanti a
questa gloria svanita testimoniata ancora dalla grandezza di queste
rovine... Niente dura dunque, e i basamenti più formidabili si
sgretolano e (p. 21) tutto questo è morto definitivamente, come
tutto muore; ma si dovrebbe morire anche quando se ne va il fine che
ci si era posti nella vita, e queste pietre almeno non hanno la
coscienza della loro rovina e non soffrono per l'abbandono!
Abbiamo
a cena il comandante B..., un vecchio lupo di mare ritiratosi dal
servizio, segretario dello Yacht Club di Pola, Ci racconta la
battaglia di Lissa alla quale ha assistito. Il luogotenente
Minutello riuscì a strappare la bandiera del "Re d'Italia",
che fu affondato dall' "Arciduca Massimiliano", poichè i
due vascelli erano così vicini che i cannonieri non potevano più
caricare i loro pezzi. Ma un colpo di fucile gli attraversò la mano
e Minutello, oggi ammiraglio, è il solo ufficiale austriaco che ha
il diritto, per licenza speciale, di tirare di sciabola con la mano
sinistra.
Constato,
nel corso delle conversazioni, che abbiamo avuto con diversi altri
ufficiali, che la marina austriaca non ha grande stima per la sua
collega italiana. Questa triplice alleanza non è neppure un
matrimonio d'interesse, perchè la Francia sembra più simpatica agli
Austriaci dei loro alleati. Ho sentito queste parole dalla bocca di
un ufficiale di marina: "Quando incontriamo una squadra
francese, fraternizziamo; con le squadre tedesche ci si limita alle
visite di cortesia, perchè il Prussiano o è rozzo e protettivo, o
s'installa in casa nostra e vi resta finché c'è del vino e del
cognac".
30
agosto - Andiamo a render visita ad alcuni (p. 22) ufficiali di
marina a bordo dell' "Arciduca Massimiliano". Questo
vecchio veterano di Lissa, dipinto di grigio, serve da scuola pratica
di marina. Il comandante di questa scuola era anche uno dei
combattenti di Lissa. Ci mostra la cabina dell'ammiraglio Tegethof,
alla quale non è stato cambiato nulla, e dove si notano due enormi
fori fatti dai proiettili italiani. Nell'interponte, una decina di
cannoni di modelli diversi che servono ad istruire gli allievi.
Sono
tutti là, stanno eseguendo l'esercizio, che interrompono per formare
la "siepe"6
al nostro passaggio.
Il
comandante ci mostra il luogo dove un enorme obice italiano distrusse
tre postazioni di cannone ed uccise diciassette uomini. Visita molto
interessante dove vengono richiamati tanti vecchi ricordi.
A
pranzo il comandante in questione, il capitano X... che comanda una
corvetta del porto, e M.B...L'ammiraglio H..., l'uomo del futuro
della marina austriaca, viene a bordo a visitare lo yacht.
Conversazione
tra le più interessanti che avvalora tutte le mie impressioni di
ieri. Certo, queste persone sono molto più uomini di mare di tutti
gli ufficiali italiani che abbiamo visto a Venezia. Tutti s'annoiano
fermi a Pola che è ancora preferibile alla Dalmazia, questa Caienna
dell'Austria, come la chiamano.
Il
tempo ha rinfrescato: un vento violento soffia a terra; la rada è
agitata, noi partiamo alle cinque per Venezia, fine del viaggio. Ah!
che bel tramonto! É stupido parlarne ogni giorno, ma non si può
fare altrimenti. Questa sera, con un mare agitato, il grosso globo
rosso sprofondava lentamente (p. 23) senza raggi: "testa di re
rapato che sta per ritirarsi in convento", ad ogni istante
oscurato dai marosi; quando fu scomparsa a metà, questa mezza sfera
faceva l'effetto di un ombrello rosso, di un rosso sanguinante,
tenuto sopra le spalle da una donna a passeggio, invisibile,
all'estremo limite dell'orizzonte...
1A
bordo della "Namouna", yacht di proprietà di James
Gordon Bennett al quale è dedicata la relazione. Estratto dalle
“Mémoires de l’Acedémie de Dijon”, IV serie, V (1896), pp.
1-23
2Lancia
a vapore; in inglese nel testo
3v.
nota 2
4
Panigai
5battello;
in inglese nel testo
6Formazione
di parata (mil.)
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